Roma, Aula del Parlamento, 16 novembre 1922, ore 15.00.
«Signori, quello che io compio oggi in questa aula è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza». Mussolini deve presentare alla Camera la lista dei ministri che intende nominare, poco dopo lo farà anche in Senato. Il tono è brusco, minaccioso; il linguaggio del corpo dimostra sicurezza e arroganza. «Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti […]. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo. Ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
Il giorno successivo, dopo un indignato ma rassegnato intervento di Filippo Turati, la Camera votò la fiducia al nuovo governo: 306 voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti. Nasceva il primo governo Mussolini.
I presupposti della conquista del potere
Ripercorriamo i mesi precedenti l’avvenimento che è argomento di questo contributo, la marcia su Roma, vediamo come è stato possibile che la Camera, e poi anche il Senato, abbiano accordato la propria fiducia a un «duce di bande armate, organizzate in un partito milizia, il quale dichiarava pubblicamente che il secolo della democrazia era finito» (E. Gentile, Mussolini e il fascismo, Laterza, 2010).
Alla fine del 1921, il fascismo poteva contare su 35 deputati e un partito appena nato, con oltre 150.000 iscritti e una forza di fuoco composta da milizie armate radicate sul territorio. L’ingresso in Parlamento, però, non poteva considerarsi il compimento di quella rivoluzione che Mussolini aveva prospettato fin dal 1919: certo, il primo obiettivo era stato raggiunto, e cioè sconfiggere il movimento operaio; ora, per soddisfare le aspettative delle masse dei sostenitori occorreva conquistare il potere. Per farlo, Mussolini giocò su più tavoli partite differenti: da un lato, nonostante avesse firmato il patto di pacificazione con i socialisti, non fece nulla per fermare le violenze squadriste che si stavano espandendo e facendo più ardite, arrivando ad occupare in massa città come Ferrara; dall’altro, rassicurò la monarchia e la Chiesa sconfessando le istanze repubblicane e anticattoliche che avevano formato il movimento fascista; alle classi dirigenti, invece, mostrò il volto legalitario del Pnf, dimostrando di accettare l’ordine costituito e di voler restaurare la legge e l’ordine; infine, si garantì il sostegno degli industriali promettendo una politica liberista che ridesse spazio all’iniziativa privata. Mussolini si assicurò così il favore di un arcipelago vasto di non fascisti, che lo individuarono come l’uomo giusto per far uscire l’Italia dalla crisi economica, politica e sociale scaturita dalla guerra e dal “biennio rosso”; in realtà, sfruttando l’agonia degli ultimi due governi liberali, Mussolini stava preparando la prova di forza.
Il 28 ottobre 1922
Più che un vero e proprio colpo di Stato, la marcia su Roma fu la minaccia di un colpo di Stato, una partita giocata sulla consapevolezza, da parte di Mussolini, dell’incapacità di reagire da parte del governo. Nel concreto fu più una marcia dimostrativa, una grande manifestazione, che un’impresa militare: si trattò infatti di alcune decine di migliaia di camicie nere (non trecentomila), male equipaggiate e indisciplinate, che non avrebbero avuto alcuna possibilità di successo di fronte a un esercito regolare e a una ferma reazione del governo. La forza di questa dimostrazione, come d’altro canto era nello stile politico di Mussolini, stava nella propaganda: fu presentata come una vera e propria spedizione militare di centinaia di migliaia di persone, affidata a quattro «quadrumviri» (Emilio De Bono, Cesare De Vecchi, Italo Balbo, Michele Bianchi), per occupare i luoghi nevralgici del potere. Mussolini, però, restò a Milano, nella sede del suo giornale, pronto per la fuga se la situazione fosse volta a suo sfavore.
Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922 le camicie nere raggiunsero in treno i dintorni della capitale, dove si accamparono. Il re, messo in grosso imbarazzo, si trovava di fronte a un bivio: ripristinare l’ordine, rischiando però una vera e propria guerra civile, oppure scommettere su Mussolini e affidargli la guida del governo. Quando il Primo ministro Luigi Facta presentò lo stato d’assedio, chiedendo i pieni poteri, il re aveva deciso: non lo firmò. Facta fu costretto a dimettersi. Inizialmente, si pensò di proporre a Mussolini la partecipazione alla compagine ministeriale al fianco di Salandra, ma il netto rifiuto dei gerarchi lo spinse a declinare. Il 29 mattina Mussolini ricevette l’attesa chiamata: il re voleva conferire con lui. La sera stessa partì per Roma, dove arrivò il giorno dopo; contemporaneamente, gli squadristi entrarono in città senza incontrare alcuna resistenza e occuparono poste, uffici del telegrafo, prefetture, lasciandosi andare a violenze gratuite. Pare che, a colloquio con il re, Mussolini avesse già pronta la lista dei ministri, preparata nelle ore decisive del 28 ottobre. A 39 anni, stava per diventare il più giovane primo ministro della storia d’Italia.
I fascisti al governo
Con la formazione del primo governo Mussolini, la crisi di quel difficile quadriennio sembrava risolta. Tutti erano contenti: i fascisti, che avevano compiuto l’attesa rivoluzione; i moderati, che videro ripristinato l’ordine; il re, che aveva scongiurato la guerra civile e il pericolo “rosso”. Mussolini – che, ricordiamolo, poteva contare su solo 35 deputati – si presentò con un programma ambizioso ma cauto e propose una lista di ministri composta da personalità provenienti da gran parte dell’arco costituzionale (dai fascisti ai popolari, dai liberali ai nazionalisti) e, anche, da uomini prestigiosi della società civile (a Giovanni Gentile, il celebre filosofo, fu affidato il ministero dell’istruzione), per guadagnare consenso e provare a sopperire all’inferiorità parlamentare. Sembrava l’inaugurazione di una nuova epoca di pacificazione nazionale. Tuttavia, il modo in cui era stata raggiunta questa nuova epoca avrebbe dovuto essere un monito per la classe dirigente, che non solo non comprese il nuovo modo di fare politica e raccogliere consenso da parte di Mussolini, ma che letteralmente consegnò l’Italia al futuro duce su un piatto d’oro.
La legittimazione definitiva del regime si consolidò nei mesi successivi, quando Mussolini preparò il terreno per la definitiva conquista del potere politico. Il 21 luglio 1923 venne approvata a larghissima maggioranza la legge Acerbo, nuova legge elettorale con un premio di maggioranza che avrebbe garantito lo strapotere in Parlamento ai vincitori delle elezioni. Il 6 aprile 1924, dopo che il re sciolse le Camere, si tennero le elezioni anticipate: svoltesi in un clima di generale violenza, il “listone” presentato dai fascisti ottenne il 65% dei voti e una netta maggioranza di seggi in Parlamento. Un ultimo, disperato tentativo di smascherare il volto totalitario, antidemocratico e illiberale del fascismo lo fece Giacomo Matteotti.