Domenica 15 gennaio ricorrevano i trent’anni dall’arresto di Salvatore Riina, il “capo dei capi” di Cosa Nostra. Il 15 gennaio del 1993, alle 9 del mattino, i carabinieri del Ros arrestavano a Palermo il responsabile della strategia stragista che ha insanguinato la Sicilia e l’Italia intera dagli anni ‘80 al maggio del 1993. Il mandante degli attentati a Falcone e Borsellino, solo per citare i due più tristemente noti. Tanti, e sentiti, sono stati gli articoli e i post per ricordare un momento spartiacque nella lotta alla mafia.
L’arresto di Matteo Messina Denaro
E il lunedì, l’Italia si è svegliata con un’altra, magnifica notizia. Matteo Messina Denaro, il latitante più ricercato d’Italia, capo indiscusso della mafia siciliana, dopo essere sfuggito alla giustizia per trent’anni, è stato arrestato. Sempre di mattina, attorno alle 9. Sempre a Palermo. Con la sua cattura, si chiude un cerchio: quello del biennio 1992-93, delle stragi, della trattativa “Stato-mafia”, degli omicidi eccellenti. Matteo Messina Denaro rappresentava tutto questo. Era stato un protetto di Totò Riina, con lui aveva condiviso la decisione di usare le bombe per imporre le proprie condizioni allo Stato. E si è macchiato di crimini ignobili: come l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, 12 anni, “colpevole” di essere il figlio della persona sbagliata, Santino Di Matteo, un collaboratore di giustizia.
È vero, Messina Denaro è malato di cancro. Forse, ha abbassato la guardia. Ma nemmeno di fronte agli applausi dei passanti e agli abbracci ai carabinieri in passamontagna le reazioni sono state univoche. Non sul fronte delle istituzioni, che hanno esultato compatti per un risultato storico, ma nella società civile. Si è detto, infatti, che il boss si è voluto far prendere perché ormai è malato. Si è detto che è stato preso perché ormai non serviva più alla mafia, che non contava più nulla. Si è detto che se è stato preso è perché ora c’è qualcun altro a capo di Cosa Nostra. Si è detto che per trent’anni è stato in Sicilia e nessuno ha fatto niente per trovarlo. O peggio, che nessuno voleva trovarlo – la più classica delle tesi complottiste. Che aveva protezioni ad alti livelli. L’arresto, invece, è stato il frutto di anni di lavoro, della perspicacia e della perseveranza di chi ha indagato sul boss, della capacità di sfruttare le scarnissime notizie a loro disposizione. E delle intercettazioni.
Le spaccature nella maggioranza
Proprio il tema delle intercettazioni è uno dei due grossi macigni che pesano sull’unità della maggioranza di governo. A margine dell’arresto del boss mafioso, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha ribadito la sua intenzione di limitare l’utilizzo delle intercettazioni. «Non per i reati di mafia e terrorismo», ha rassicurato. Ma per tutti gli altri sì. Per evitare che le intercettazioni finiscano dove non devono – ad esempio nelle mani dei giornalisti – e mettano a rischio la reputazione di persone che, fino a prova contraria, sono innocenti. Così, però, si rischierebbe di non poter più utilizzare uno strumento fondamentale per combattere, ad esempio, la corruzione. O di indebolire le inchieste, come quella che ha portato alla condanna della Juventus (penalizzazione di 15 punti) e dei suoi vertici per il caso delle plusvalenze. Tant’è che Giulia Bongiorno, esponente di spicco della Lega e presidente della commissione Giustizia del Senato, ha espresso il suo parere negativo nei confronti dell’indirizzo del ministro.
L’altro pomo della discordia riguarda due cavalli di battaglia di due delle forze politiche di maggioranza: l’autonomia differenziata, che la Lega di Salvini ha rilanciato in grande stile per riconquistare i voti perduti del Nord, e il presidenzialismo, il vessillo di Fratelli d’Italia. Il nodo è molto semplice: entrambi vorrebbero porre le rispettive istanze in cima all’agenda di governo. È una questione di principio e di prestigio. Salvini ha promesso che l’autonomia si farà entro il 2023, ma il coltello dalla parte del manico ce l’ha il partito della Meloni, forte di un consenso che supera il 30% – stando agli ultimi sondaggi – e dell’appoggio di Forza Italia, anch’essa non convinta dal progetto autonomista. Il quale, d’altro canto, presenta anche dei problemi sostanziali. Nello specifico, bisognerebbe prima rendere i Lep (i Livelli essenziali delle Prestazioni) uniformi su tutto il territorio nazionale, altrimenti si corre il rischio di approfondire ancor di più i già evidenti squilibri tra Nord e Sud.
Problemi per Fratelli d’Italia?
È stata comunque una settimana complicata, per il partito della premier Meloni.
Il fronte caldo è quello che ha infiammato il dibattito pubblico la settimana scorsa: l’aumento del prezzo della benzina. I benzinai, dopo essere stati accusati di speculare sul prezzo al dettaglio, hanno indetto uno sciopero per il 25 e il 26 gennaio. Aveva provato a fare dietrofront, a parole, Meloni, ma la norma che li obbliga a esporre il prezzo medio accanto a quello attuale li penalizza, oltre a essere oneroso in termini di tempo e costi. Nonostante i tentativi del governo di far cambiare idea alla categoria, lo scioperò si farà.
Ma a fare discutere è stata anche l’ennesimo disegno di legge, presentato in Senato da Roberto Menia, senatore di Fratelli d’Italia, sul riconoscimento della capacità giuridica dal concepimento, e non dalla nascita, come l’ordinamento attuale prevede. Un’iniziativa che ha parzialmente svegliato un’opposizione finora inesistente, spaccata, confusa. Magari, dopo le primarie del PD, che si concluderanno a fine febbraio, i partiti di opposizione riusciranno a fare fronte comune, almeno su temi identitari come quello dell’aborto.
Infine, questa è stata la settimana dell’elezione dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. E Fratelli d’Italia ha commesso un grave errore, candidando un indagato per ‘ndrangheta: Giuseppe Valentino. È vero che si è innocenti fino a prova contraria, ma è una scelta discutibile, tanto più se presa proprio dopo l’arresto di Messina Denaro, quando si poteva dare un segnale forte. Un’opportunità che, purtroppo, non è stata sfruttata.
Chissà se ci saranno ripercussioni, in termini di consenso.
Cambiamenti all’Economia
Chiudiamo con l’avvicendamento che ha coinvolto un ruolo chiave del Ministero dell’Economia. Dopo averlo annunciato pubblicamente, Meloni ha sostituito il direttore generale del ministero: Alessandro Rivera ha lasciato il suo posto a Riccardo Barbieri. Non senza tensioni tra Giancarlo Giorgetti e il resto dell’esecutivo, nello specifico il ministro della Difesa Crosetto, che ha velatamente accusato Rivera di servire «ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa».