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Un chiaro indirizzo politico

Disincentivi all’emersione dell’economia sommersa e alla lotta contro l’evasione fiscale, progressivo svuotamento dei diritti civili, identificazione del “problema sicurezza” con l’immigrazione, respingimento dei migranti e “chiusura” dei luoghi di approdo, gestione dura e violenta dell’ordine pubblico e delle manifestazioni di dissenso politico. I primi passi mossi dal nuovo esecutivo mostrano chiaramente la strada che l’Italia imboccherà nel corso di questa legislatura: una via lastricata di posizioni estreme, ultraconservatrici, ultracattoliche, cieche e ottuse. Incapaci di relazionarsi con la realtà del XXI secolo e di risolvere i problemi reali che la società pone.

Sono passate poco più di due settimane dall’insediamento del nuovo Parlamento e appena una dal giuramento dell’esecutivo. Tanto è bastato a Giorgia Meloni per mostrare quale indirizzo intende dare al Paese nei prossimi cinque anni, smentendo, negli stessi momenti in cui le pronunciava, le sue stesse parole.

Il “diritto a non abortire”

Per tutta la campagna elettorale, il centro-destra, e Meloni in particolare, ha insistito sulla promessa di non toccare la Legge 194/1978, quella sull’aborto; anzi, di volerla attuare pienamente, dando la possibilità a tutte le donne di poter sostenere la gravidanza e non essere costrette ad abortire – le parole usate, in verità, sono «dando loro il diritto a non abortire». Prima di procedere, è necessario evidenziare come è stata presentata la questione: ha perfettamente ragione chi sostiene che bisogna rimuovere gli ostacoli economici per permettere a chiunque di prendere le proprie scelte, come quella di portare avanti una gravidanza. Ma il tema non è stato presentato in questi termini: anzi, usando con sottigliezza le parole «diritto a non abortire», sembra quasi che oggi le donne siano costrette a interrompere la gravidanza. I dati però, dicono esattamente il contrario: secondo quelli del Ministero della Salute relativi al 2020, «permane elevato il numero di obiettori di coscienza per tutte le categorie professionali sanitarie», e specialmente tra i ginecologi (64,6%, ma con punte dell’80% in Regioni come l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata, la Sicilia).

Proviamo però a tralasciare questo aspetto e prendere per buone le parole del centro-destra in campagna elettorale. Non è solo la scelta di un ministro come Eugenia Maria Roccella, nota antiabortista e pro-vita, a smentirle, ma anche i primissimi passi mossi da esponenti della maggioranza; anzi, sarebbe meglio dire il primissimo passo. Perché nel giorno stesso in cui sono iniziati i lavori della XIX legislatura, il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha presentato due ddl che vanno in una direzione precisa: il primo, più di facciata, che intende istituire la “Giornata della vita nascente” il 25 marzo; il secondo, decisamente più di sostanza, vorrebbe modificare l’art. 1 del Codice civile e riconoscere capacità giuridica all’individuo non più dal “momento della nascita”, ma dal concepimento. E se è vero che, formalmente, la 194 non verrebbe toccata, è chiaro come introdurre questo correttivo limiterebbe enormemente la libertà di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza: riconoscere capacità giuridica al momento del concepimento significherebbe riconoscere al feto appena concepito il diritto alla vita, e interrompere la gravidanza equivarrebbe quindi a un omicidio volontario.

Lotta alle Ong

Anche in tema di immigrazione, il nuovo governo non ha tardato a far vedere chiaramente quale sarà il suo indirizzo. Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, due navi ONG hanno salvato in mare più di 300 migranti ma, al momento di chiedere il permesso per le operazioni di sbarco, si sono viste sbattere la porta in faccia dal nuovo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, il quale ha impedito loro l’ingresso nelle acque territoriali.

È un ritorno della politica dei “porti chiusi” di salviniana memoria? Sì e no: sì, perché viene riproposta la linea durissima nei confronti delle ONG, che dovranno aspettarsi nuovamente di essere delegittimate e criminalizzate perché salvano vite umane; no, perché la Guardia costiera continua il suo lavoro di soccorso in mare e sbarco, e almeno finora il nuovo ministro ha avuto l’intelligenza di non mentire spudoratamente strillando all’opinione pubblica che “i porti sono chiusi”, quando la verità è che non lo sono mai stati.

Ciò non significa che i segnali siano incoraggianti per il futuro. Nel suo discorso per richiedere la fiducia alla Camera, Meloni ha cercato di addolcire l’amaro boccone sostenendo che non ha intenzione di restringere il diritto d’asilo e che i flussi migratori vanno gestiti, e soprattutto chi arriva deve essere messo in grado di vivere dignitosamente. Nei fatti, questa “gestione”, secondo il nuovo governo, deve passare per il rinnovo e il rafforzamento degli accordi con la Libia, che l’Unhcr continua a non considerare un porto sicuro.

Ordine pubblico e repressione delle opposizioni

Lo stesso 25 ottobre abbiamo avuto un assaggio di come verranno “gestite” anche le manifestazioni di contestazione all’attuale governo e, più in generale, quale sarà l’indirizzo che guiderà la gestione dell’ordine pubblico: la repressione. Infatti, negli stessi momenti in cui Meloni, di fronte ai colleghi della Camera dei deputati, annunciava con un sorriso di non poter che provare simpatia per i ragazzi che manifestavano contro il governo, perché anche lei l’aveva fatto, di fronte alla Sapienza di Roma la polizia reprimeva con i manganelli la protesta del movimento “Cambiare Rotta”, contrari allo svolgimento del convegno organizzato dall’associazione studentesca di destra Azione Universitaria. Fermo restando che il diritto di parola, così come lo svolgimento di una manifestazione autorizzata, devono essere garantiti a tutti, spaventa tremendamente la gestione dell’ordine pubblico: sono diventate subito virali le immagini della carica della polizia, del sangue dei giovani studenti e del manifestante ammanettato, trascinato a terra, circondato da uomini in borghese e poi portato via.

Ha poi aggiustato il tiro delle sue parole, Meloni, nel discorso programmatico in Senato il 26 ottobre, sostenendo che quegli studenti non fossero lì per manifestare pacificamente, e quindi, per consecutio logica, le forze dell’ordine hanno fatto bene a rispondere con le manganellate. Ciò che più strideva è che queste parole erano la replica alle lecite domande di Ilaria Cucchi, una donna che ha dovuto combattere per anni con lo Stato, con gli stessi politici che oggi ricoprono ruoli di governo, con la magistratura e con l’opinione pubblica, per vedere riconosciuto l’omicidio in carcere di suo fratello, Stefano, pestato in carcere da due carabinieri nella notte tra il 15 e il 16 ottobre e morto sei giorni dopo.

Lotta all’evasione?

Proprio in quel discorso al Senato, Meloni ha annunciato le prossime misure in materia fiscale. E se in campagna elettorale era stata molto moderata – a differenza del suo alleato Matteo Salvini –, ora si è sbilanciata: “tregua fiscale” (cioè condono), flat tax e, misura che ha fatto molto discutere, aumento del tetto all’uso dei contanti, che attualmente è fissato a 2.000 ma che dovrebbe abbassarsi a 1.000 da gennaio.

Ma a cosa serve il tetto all’uso dei contanti? Innanzitutto, occorre ricordare che ogni Paese legifera autonomamente in materia: così, ad esempio, in Germania, così come nei Paesi Bassi, in Austria, Finlandia, Ungheria e altri Paesi non c’è un tetto, mentre la Grecia ne ha uno di 500 euro; molti sono poi gli Stati che ne hanno uno intermedio, dai 3.000 del Belgio ai 5.000 della Slovenia. Tuttavia, ogni Stato ha un suo metodo di controllo delle transazioni sospette: in Germania, per i pagamenti sopra i 10.000 euro bisogna mostrare un documento, nei Paesi Bassi c’è l’obbligo di segnalazione per le transazioni sospette sopra i 2.000 euro.

Adottare un tetto all’utilizzo dei contanti è una misura, a mio avviso, più “pedagogica” che pratica: serve, cioè, a “educare” i cittadini all’utilizzo dei pagamenti elettronici, e quindi tracciabili. Perché è chiaro che alzare il tetto a 10.000 euro non avrà risvolti pratici: nessuno (o quasi) effettua transazioni legali in contanti per più di 10.000 euro, e forse nemmeno per più di 2.000 in un Paese in cui, secondo l’Istat, in media un italiano guadagna 32.800 euro lordi all’anno. Il problema è, appunto, culturale. Aumentare il tetto dei contanti a parità di condizioni precedenti (ovvero senza aumentare i controlli) significa strizzare l’occhio agli evasori: al professionista che chiede 1.000 euro con fattura o 800 senza; al ristoratore che invece di battere lo scontrino emette il preconto; al barista che, se paghi in contanti, ti fa lo sconticino. Perché è chiaro che poter pagare 100, 1.000, 10.000 euro in contanti non ha influenza concreta sulle transazioni illegali, ma non disincentiva l’uso dei contanti: cosa, questa sì, che contrasterebbe seriamente l’evasione, tanto più in un periodo storico dove ormai gran parte della vita quotidiana è informatizzata.

Curiose le parole con cui Meloni abbia sostenuto questa proposta: il tetto all’uso del contante penalizzerebbe i poveri, secondo lei, ma non si capisce secondo quale logica lo farebbe. Tantomeno ci renderebbe meno competitivi rispetto agli altri Paesi europei che limiti non ne hanno o ne hanno di molto alti: davvero qualcuno andrebbe ad aprire un’attività in Germania perché lì si può pagare in contanti e qui no? O comprerebbe una casa in Austria perché lì può pagarla con 150 mila euro in contanti?

Come in molte delle dichiarazioni pubbliche di questo governo, dunque, bisogna andare oltre le parole che vengono pronunciate e guardare il quadro generale. La politica fiscale è stata annunciata, purtroppo, dimostra che anche questa volta il governo non combatterà l’evasione fiscale e l’economia sommersa, non combatterà il riciclaggio di denaro né il lavoro nero, non combatterà le disuguaglianze economiche, ma nemmeno quelle sociali. Non combatterà per la difesa dei diritti civili e dei diritti umani.

È davvero questa l’Italia che gli elettori del centro-destra vogliono?

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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