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La strage di Cutro: una vergogna italiana

Il naufragio del caicco con 185 persone a bordo a Steccato di Cutro, sulle coste della Calabria, ha reso evidente, forse una volta per tutte, l'inadeguatezza della politica italiana di fronte al fenomeno migratorio.

Disgusto. Vergogna. Dolore.

Sono queste le parole, con tutto il bagaglio emozionale che si portano appresso, che ci riempiono i pensieri da dieci giorni a questa parte. Da quando quel caicco partito dalla Turchia, carico di persone che scappavano dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Pakistan, è stato ritrovato in pezzi sulla spiaggia di Steccato di Cutro, in Calabria. 185 tra uomini, donne, bambin* e ragazz* che hanno intrapreso un viaggio pieno di pericoli, carico di sofferenze, usando i risparmi di una vita, pur di fuggire da situazioni insostenibili nei propri Paesi: guerra, fame, violenze, persecuzioni, disoccupazione, povertà. Nessun futuro possibile. Intere famiglie si sono imbarcate a Izmir, nella speranza di raggiungere le coste europee e iniziare una vita nuova, dignitosa.

Una speranza che si è spenta nella notte tra sabato 25 e domenica 26 febbraio, tra le onde di un mare ostile (forza 4 su 7), a pochi metri dalle coste italiane. Più di 70 sono i morti, molti sono ancora i dispersi. Si è salvato chi era capace a nuotare e chi non è rimasto bloccato nella stiva, dove tutte queste persone erano state ammassate per affrontare un viaggio di quattro giorni.

Le autorità dov’erano, quella notte? In questi giorni è stato detto tutto e il contrario di tutto, su questo naufragio. A stabilire la dinamica e le responsabilità ci penserà la magistratura, che ha avviato un’indagine. Ma di fronte a una tragedia di queste dimensioni, la più grave dal 2013 sulle nostre coste, l’incredulità e lo sgomento hanno portato a chiederci non tanto chi sia il responsabile (il governo? La Guardia di Finanza? La Guardia Costiera? Le nostre politiche migratorie? Quest’entità quasi metafisica e indistinta che sono diventati gli scafisti? Non di certo i migranti stessi, come ha insinuato il ministro Piantedosi), ma come sia stato possibile che un disastro del genere sia accaduto.

Secondo le ricostruzioni che circolano, il caicco era stato avvistato la sera del 25 febbraio, e che le condizioni del mare sarebbero peggiorate anche era cosa nota. La Guardia di Finanza avrebbe provato a raggiungere l’imbarcazione, ma sarebbe tornata indietro di fronte alle onde. Sarebbe potuta, allora, intervenire la Guardia Costiera, che possiede barche in grado di uscire in mare in sicurezza anche in condizioni proibitive. Perché, allora, non è intervenuta la Guardia Costiera?

Perché non si è fatto di tutto per salvare queste persone?

Un clima infame

La risposta è relativamente semplice. Perché negli ultimi dieci anni almeno, l’attività di salvataggio delle persone in mare e i fenomeni migratori sono stati oggetto di campagne di discredito e di criminalizzazione da parte di attori istituzionali. Una vera e propria macchina del fango, un bombardamento mediatico: “ci rubano il lavoro”, “vengono per spacciare e delinquere”, “le ONG sono complici degli scafisti e alimentano il traffico clandestino”. Senza dimenticare la crociata che Salvini aveva intrapreso proprio contro le ONG – lo ricordiamo tutti il caso di Carola Rackete e della Sea Watch.

Attorno alla migrazione, in particolare quella sulle rotte marittime, si è creato un clima infame – volendo citare le famose parole di Craxi nei mesi più duri di Tangentopoli –, e questo, da un lato, ha desensibilizzato l’opinione pubblica – o almeno una parte di essa. Ma, più importante, ha influito sulle politiche migratorie che i diversi governi che si sono succeduti in Italia hanno adottato. A partire dalla legge Bossi-Fini del 2002 (lo stesso Fini ha dichiarato in queste ore che, oggi, è una legge obsoleta). Ma ben più recenti sono il Memorandum con la Libia, firmato nel 2017 dal ministro Minniti, i Decreti Sicurezza fortemente voluti da Salvini nel 2018, gli accordi con i Paesi di partenza o di transito per bloccare le partenze. Fino ad arrivare al recentissimo Decreto Ong. Leggi che hanno ristretto sempre più i margini di intervento dei soccorritori o, volendo usare un’espressione cara al ministro Salvini, che hanno cercato di “chiudere i porti”. E a loro volta, questi interventi legislativi hanno ulteriormente inasprito il clima, in un cortocircuito da cui sembra difficile uscire.

Sia chiaro: nessuno – noi no di certo – pensa che il governo non sia intervenuto deliberatamente per soccorrere i 185 migranti naufragati in mare. Non ci azzarderemmo mai, senza prove, a dire che sono – o non sono – partiti volutamente ordini dai ministeri addetti per salvare queste persone.

Ma una responsabilità politica, o meglio morale, i partiti che oggi sono al governo, e alcuni loro esponenti in particolare, ce l’hanno eccome. Perché a lungo le forze di maggioranza, che ieri erano all’opposizione, hanno presentato il fenomeno migratorio come il problema, la causa di tutti i mali sociali ed economici dell’Italia.

E il recente decreto che impone alle ONG di effettuare una – e una soltanto – operazione di soccorso in mare alla volta, pena sequestri e multe esorbitanti, significa, di fatto, osteggiare i salvataggi, renderli difficili, stancanti al limite dello sfinimento, spingendo le ONG ad abbandonare il mare. Ancor di più se poi si mortificano gli operatori che in mare ci lavorano accusando le ONG di favorire l’immigrazione clandestina.

Un capro espiatorio per non ammettere le proprie responsabilità. Perché è la vergognosa politica migratoria attuale dell’Italia a rendere possibile che tragedie come quella di Cutro si verifichino.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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