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“Quando c’era lui…”. Memoria e fascismo

«Mussolini non ha ammazzato nessuno. Mussolini mandava le persone in vacanza al confino».

Quante volte ci è capitato di sentire frasi del genere, in autobus o al tavolino del bar, al parco o passeggiando per strada, in rete e nelle varie pagine dei social network. Parole che intimamente infastidiscono, lasciano un retrogusto amaro in bocca, ma che il più delle volte, purtroppo, abituati come siamo a sentirle, incontrano un misto di indifferenza e di rassegnazione, e non ricevono replica. Il problema è che questa frase è stata pronunciata da un Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nel settembre 2003, in un’intervista ufficiale rilasciata a Nicholas Farrel e Boris Johnson – sì, l’attuale Primo ministro inglese – per The Spectator. Com’è ovvio, queste dichiarazioni scatenarono una bufera, e inutili furono i goffi tentativi del premier di minimizzare l’accaduto, di classificare quell’episodio come «una chiacchierata tra amici accompagnata da due bottiglie di champagne».

La verità è che sempre più spesso, non solo nelle “chiacchierate tra amici”, ma nei dibattiti e nelle dichiarazioni di personaggi pubblici, e soprattutto sul web, si sentono e si leggono frasi che minimizzano, assolvono, rileggono sotto una luce benevola e indulgente la figura di Mussolini e il regime stesso – per non dire della galassia esplicitamente neofascista, che da una quindicina d’anni ha addirittura un movimento politico a rappresentarla, in barba alla legge Scelba.

Anni fa, durante il mio percorso universitario a Torino, ho seguito un corso, tenuto dal professor Silvano Montaldo, dedicato all’“uso pubblico” della storia, ovvero di come la storia, nel dibattito pubblico esterno alla discussione scientifica, venga utilizzata, modificata, reinterpretata strumentalmente in base alle esigenze del momento, molto spesso politiche, e ovviamente senza alcuna, o con scarsa, attinenza alla realtà storica. Un uso “perverso” che è reso possibile da quelli che Stefano Pivato ha eloquentemente definito “vuoti di memoria” (Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza, 2007). Vi ripropongo qui alcuni dei ragionamenti fatti durante questo corso riguardanti il fascismo, e proveremo poi a trarne delle conclusioni.

Le “bufale” su Mussolini e sul regime

La diffusione di notizie false, o ingigantite, o di mezze verità sulla figura di Mussolini e sul regime più in generale non è un fenomeno nuovo, anzi. Ho approfondito in altri contributi il ruolo della propaganda nella nascita e nel consolidamento del regime fascista, e naturalmente parte integrante era la proposizione di una certa immagine del duce, del regime (positiva) e degli oppositori (negativa). Ebbene, possiamo dire che la creazione consapevole delle prima “bufale” sul fascismo sono nate proprio negli anni del regime: spesso erano grandi campagne di propaganda sui mezzi d’informazione, fatte di facili slogan, che celebravano le doti personali del duce, le sue “grandi azioni” e le sue “battaglie” (come la “battaglia del grano”; la “guerra alle acque”, ecc.). Da qui sono arrivate a noi le narrazioni del duce “bonificatore delle paludi”, del grande costruttore di case, strade, città, del duce che “ha sconfitto la mafia”, del “grande statista” che ha reso l’Italia una “potenza militare ed economica” e che “ha amato il suo popolo”, del dittatore “umano”, “buono”.

Ma com’è possibile che si sia sedimentata e diffusa un’immagine simile, nettamente in contrasto con la realtà o, dicendola con le parole di Francesco Filippi (Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri, 2019), colui che «è stato di fatto il maggior massacratore di italiani della storia»?

I “vuoti di memoria”

Domanda difficile a cui dare risposta, questa. O forse meno del previsto? Possiamo partire da una considerazione sconfortante: gli italiani, in generale, hanno scarsa conoscenza dei fatti storici, anche quelli basilari. Abbiamo ancora tutti nella mente Giuseppe Conte che, nel 2018, confondeva l’8 settembre 1943 con il 25 aprile 1945, o i vari servizi “comici” che interrogano deputati del Parlamento su fatti semplicissimi, provocando l’ilarità del pubblico alle risposte sbagliate – ma c’è davvero da ridere a fatti del genere? Altro esempio: il libro di Pivato che abbiamo citato prima è nato da un’indagine condotta tra gli studenti di storia di varie università italiane, nel 1997, che ha dato risultati disastrosi. Non ci inoltreremo qui nelle cause di queste “lacune”, ma consentitemi di nominare alcune delle problematiche odierne: riforme del reclutamento degli insegnanti a ogni cambio di governo; finanziamenti scarsi, per non dire inesistenti, alla ricerca e all’istruzione; la lettura acritica delle notizie e di pseudo-ricostruzioni storiche che ormai si trovano ovunque (specialmente sul web, ma alcune hanno hanno anche ricevuto “dignità di stampa” da note case editrici); la sfiducia crescente verso ciò che è insegnato nei luoghi della cultura, definito “ufficiale” e quindi, per questo, denigrato – come se “ufficiale” significasse fittizio, falso, deciso a tavolino.

Se, dunque, anche agli studenti di storia capita di avere amnesie, dobbiamo immaginare una situazione ancora peggiore per chi non è “del settore”, in primis per la difficoltà di saper scegliere criticamente le fonti, e poi perché i luoghi di informazione è più facile che siano il web, riviste d’intrattenimento, programmi televisivi. Amnesie che non fanno altro che alimentare, in un circolo vizioso, la diffusione di fake news, e impedire che nella memoria degli italiani si sedimenti la necessaria consapevolezza di cosa sia stata in realtà la dittatura fascista.

Per essere più chiari, vediamo alcuni di questi “vuoti di memoria”.

La scarsa conoscenza delle guerre intraprese da Mussolini. Quando si pensa alla Seconda guerra mondiale, è facile che si ricordi l’Italia come completamente sottoposta alla Germania, quasi come un’appendice del Reich. Questo è sicuramente uno dei più efficaci “vuoti di memoria” sul fascismo perché ha rimosso completamente le diverse guerre d’aggressione intraprese da Mussolini, con tutto ciò che ne è conseguito per l’Italia stessa, per l’esercito italiano e, soprattutto per le popolazioni aggredite. Ripercorriamole brevemente: la guerra d’Etiopia (1935-36), dove tra l’altro furono utilizzate armi chimiche per vincere (altra grande rimozione nella memoria comune); l’invasione del Regno d’Albania (1939) e della Grecia (1940), l’ingresso in guerra contro Inghilterra e Francia (1940), la campagna d’Africa (1940-41), la durissima occupazione dei Balcani (1942-43), dove furono costruiti campi di concentramento italiani e furono operati rastrellamenti nei confronti dei civili jugoslavi. A livello mediatico, invece, è stato dato molto più risalto all’eroismo dell’esercito nella battaglia di El Alamein o alla tragica ritirata dell’Armir nell’inverno russo del ’42. Credo l’obiettivo sia chiaro: allontanare il regime dal ruolo del carnefice.

Ruolo che, nel tentativo di assolvere il regime, è stato addossato interamente all’alleato nazista. Infatti, altra enorme rimozione riguarda il tema del razzismo fascista, in particolare su due temi: la questione delle leggi razziali e la partecipazione attiva alla Shoah. Spesso è stato detto che il razzismo biologico è entrato nella cultura italiana solo nella seconda metà degli anni ’30, dopo l’avvicinamento di Mussolini a Hitler, e che Mussolini fu riluttante a promulgare le leggi razziali. La realtà non è esattamente così. Innanzitutto, il Manifesto della razza fu un’operazione politica svoltasi ai vertici del regime – Mussolini stesso revisionò il documento –, come risposta alla crisi di consensi che stava vivendo il duce alla fine degli anni ’30: l’obiettivo, probabilmente, era quello di recuperare lo slancio delle origini trovando un nuovo “nemico” contro cui lanciarsi – nel 1919 erano i bolscevichi, nel 1935 le potenze “plutocratiche”, nel 1938 gli ebrei. La politica antisemita, inoltre, fu attuata coerentemente e a tutti i livelli: vennero cacciati gli alunni ebrei dalle scuole, furono espulsi i docenti ebrei, fu censurata la stampa ebraica, furono create cattedre di razzismo e promossi studi razziali nelle università. Insomma, fu un progetto totalitario coerente, che utilizzò l’antisemitismo per compattare la società italiana. Il discorso sulla collaborazione degli italiani alla Shoah è invece più semplice da spiegare: molto semplicemente, si è a lungo taciuto sul fatto che le deportazioni degli ebrei furono attuate anche da italiani e si sono ingigantite le storie – che, attenzione, ci sono state – degli italiani che hanno aiutato gli ebrei a nascondersi o che si sono rifiutati di consegnarli. Basterebbe leggere la storia di Liliana Segre e della sua famiglia o del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma dell’ottobre 1943 per rendersi conto che il fascismo ebbe eccome parte attiva nel genocidio degli ebrei.

Fact checking

La domanda sorge spontanea: esistono degli antidoti per i “vuoti di memoria” e le strumentalizzazioni degli eventi storici, oggi che è difficile che un articolo troppo lungo venga letto per intero, o che l’informazione semplice e rassicurante è preferita rispetto a quella complessa e critica? Compito difficile, anche per come sono strutturati il mondo accademico e il settore dell’informazione. Pensiamo, ad esempio, al complicato rapporto degli storici con i mass media; o meglio, al fatto che sempre più gli storici sono stati estromessi dai grandi dibattiti in televisione e sono stati relegati a canali tematici (come Rai Storia e History Channel), programmi specifici (Passato e Presente, a.C.d.C.) e riviste di settore. Questo, credo, è dovuto a ciò che accennavo prima, e cioè che gli storici, se sono seri, non possono offrire risposte semplici a problemi complessi, hanno bisogno di spazi e tempi adatti a una spiegazione esaustiva e completa.

Tuttavia, negli ultimi due decenni qualcosa ha iniziato a smuoversi. A partire da un classico come Il mito del bravo italiano di David Bidussa (1994), sempre più storici hanno dedicato le loro energie a smontare i miti del fascismo. In prima linea, oggi, troviamo autori come Filippo Focardi (Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, 2013), Francesco Filippi (Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri, 2019; Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto, Bollati Boringhieri, 2020; Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Bollati Boringhieri, 2021), Carlo Greppi (Si stava meglio quando si stava peggio. 20 luoghi comuni da sfatare, Chiarelettere, 2021). Tutti autori che hanno partecipato a un bellissimo progetto editoriale con la casa editrice Laterza: la serie Fact checking: la Storia alla prova dei fatti. L’obiettivo dichiarato, come dice il titolo della serie, è proprio quello di smontare le fake news che circolano sul fascismo – e non solo. Credo sia interessante il modo in cui vengono presentati, ovvero con un titoli accattivanti che riprendono le stesse bufale che, all’interno dei libri, vengono confutate – Anche i partigiani però… (Chiara Colombini); Prima gli italiani! (sì, ma quali?) (Francesco Filippi); Il fantastico regno delle Due Sicilie. Breve catalogo delle imposture neoborboniche (Ippolito Arminio); E allora le foibe? (Eric Gobetti).

Insomma, questi – e altri – autori hanno dimostrato che è possibile combattere l’imperare delle fake news facendo informazione seria, documentata, ma allo stesso tempo leggera e fruibile; hanno dimostrato ancora una volta il ruolo centrale della storia per la società, alla faccia di chi voleva eliminare la traccia di storia dagli esami di maturità; hanno dimostrato, e qui concludo, l’efficacia di un’arma che, in questo settore, non era quasi mai stata presa in considerazione: una certa dose d’ironia provocatoria, almeno apparente, mescolata sapientemente allo studio attento, preciso, profondo, serio, dei fatti.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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