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L’Italia nella Seconda guerra mondiale

Roma, Piazza Venezia, 10 giugno 1940.

Sono circa le 18 di un caldo lunedì di fine primavera e Mussolini sta per affacciarsi dal balcone di Palazzo Venezia, sede del Gran Consiglio del Fascismo, dove ha appena conferito con gli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia. Una folla enorme si è radunata in piazza e oltre, arrivando fino all’Altare della Patria e a Via dell’Impero, lo stradone aperto nel 1932 che collega il Vittoriano al Colosseo. La tensione e l’entusiasmo sono fortissimi, pronti a esplodere quando il duce inizia a parlare

«Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria: l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori…»; eccola, la marea, che applaude e urla di gioia, costringendo Mussolini a una lunga pausa. «…agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. […] La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere!». Mussolini, da grande oratore qual è, arringa il popolo; e le persone si lasciano ammaliare, lo interrompono di nuovo, festanti, scandendo il discorso del loro duce. «E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo! Popolo italiano! Corri alle armi [sì] e dimostra la tua tenacia [sì], il tuo coraggio [sì], il tuo valore! [sì]».

Quella folla non poteva immaginare che la guerra, per la quale quel lunedì si pronunciava entusiasta a favore, cinque anni dopo avrebbe lasciato un tragico bilancio: quasi 450.000 morti tra militari e civili – e chissà quanti tra feriti, mutilati, dispersi –, città distrutte dai bombardamenti, un paese territorialmente e socialmente diviso.

L’Italia prima della guerra

Abbiamo visto tutti almeno una volta il filmato della dichiarazione di guerra – recentemente restaurato e reso disponibile a colori dall’Istituto Luce Cinecittà –, abbiamo sentito tutti la voce ferma di Mussolini, accompagnata da un linguaggio del corpo che ostenta sicurezza, forza, potere, promettere una facile vittoria e il riscatto dell’Italia. Ciò che Mussolini evitò di dire, quel giorno, era il motivo per cui l’Italia non era entrata in guerra con la Germania il 1° settembre 1939, come avrebbe invece dovuto fare in virtù del Patto d’Acciaio firmato con il Reich pochi mesi prima. L’Italia non era pronta ad affrontare la guerra, né dal punto di vista militare, né da quello economico: moltissime risorse ed energie, infatti, erano state usate nel sostegno alla guerra civile spagnola e nella guerra in Etiopia (1935-36); impresa, quest’ultima, certo prestigiosa, ma dagli enormi costi in termini militari ed economici, a causa delle sanzioni internazionali, e aggravati dalla politica autarchica intrapresa dalla metà degli anni ’30. Così, nel settembre del ’39, Mussolini decise di non entrare subito in guerra, di dichiararsi Stato “non belligerante”, di aspettare che la Germania fosse sul punto di vincere e poi, come disse egli stesso, gettare «qualche migliaio di morti sul tavolo della pace». Questo non vuol dire che Mussolini intendesse sottostare supinamente a Hitler; al contrario, il suo obiettivo era quello di intraprendere una “guerra parallela” a quella tedesca, ma altrettanto di conquista, nei Balcani e in Africa: in questo senso si spiegano l’occupazione preliminare del Regno di Albania (aprile 1939), visto come base per la penetrazione in tutta l’area dei Balcani, e l’apertura dei fronti africano e greco nel 1940-41.

La “guerra parallela” (1940-41)

Che la guerra per l’Italia si sarebbe risolta in un disastro era facilmente intuibile dai risultati delle primissime operazioni militari. Il 21 giugno, l’Italia attaccava una Francia già sconfitta dai tedeschi, con Parigi occupata, al collasso dal punto di vista militare, eppure non riuscì a sfondare le linee nemiche e decise di firmare un armistizio (24 giugno) che prevedeva minime conquiste territoriali: insomma, l’operazione fu un fallimento. Ancora peggio, però, andò sugli altri due fronti.

In Africa, l’Italia decise di attaccare l’Egitto britannico dalla Libia, che allora era parte dell’impero coloniale italiano insieme a Etiopia, Somalia ed Eritrea (l’Africa orientale italiana, AOI). L’offensiva, lanciata nel settembre 1940, si risolse in un disastro: dopo l’iniziale penetrazione in Egitto, l’esercito italiano fu sconfitto tra novembre e dicembre e costretto a ritirarsi; i britannici raggiunsero la Cirenaica, la parte orientale della Libia, conquistandola e solo l’intervento tedesco, nel marzo 1941, interruppe l’avanzata inglese. Per l’Italia, il bilancio fu tragico: 140.000 tra morti, feriti e prigionieri. In quelle stesse settimane dell’autunno 1940 l’esercito italiano subiva un’analoga sconfitta in Grecia e veniva risospinto in Albania. Furono due colpi durissimi per il prestigio internazionale dell’Italia e per il consenso interno verso il duce: era infatti ormai chiaro a tutti che l’Italia era il punto debole dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo.

A questo punto, si verificò ciò che Mussolini voleva assolutamente evitare: l’intervento della Germania. Nel febbraio 1941, sbarcò in Libia – alla testa degli Afrika Korps – il generale Rommel, che riuscì a riconquistare la Cirenaica; non si poté fare niente, invece, per l’AOI: il 6 aprile 1941 l’Etiopia veniva occupata dagli Alleati. Lo stesso giorno, l’esercito tedesco invadeva i Balcani, dove L’Italia, nei mesi successivi, si trovò a svolgere il ruolo di potenza occupante, esercitato con violenza e crudeltà. La “guerra parallela”, in ogni caso, era fallita: a un anno dall’ingresso in guerra, su tutti i fronti le truppe italiane erano affiancate a quelle tedesche, trovandosi in una posizione subordinata.

I mesi decisivi

Per l’Italia, la guerra si decise in Africa, per due motivi. Il primo è che quello africano, all’inizio del 1942, era l’unico fronte ancora attivo tra quelli aperti dagli italiani: lo sarebbe stato fino all’autunno di quell’anno, quando l’esercito britannico, guidato dal generale Montgomery, sconfisse le truppe italo-tedesche a El Alamein, costringendole a ritirarsi fino alla Tunisia, dove si arresero. Il secondo è che a Casablanca, nel gennaio 1943, Inghilterra e Stati Uniti decisero che la controffensiva per liberare il continente europeo dal nazifascismo doveva partire dall’Italia, la più debole delle potenze dell’Asse, anche a causa della crisi interna che era esplosa in quei mesi difficili: le sconfitte militari, le grosse perdite umane (tra cui, freschissimi nella mente degli italiani, i 100.000 morti dell’Armir, il contingente italiano partito per la Russia accanto alla Wehrmacht, nella tragica ritirata da Stalingrado dell’inverno 1942), i bombardamenti alleati, le pessime condizioni di vita avevano fiaccato il morale della popolazione e instillato dubbi sulla figura di Mussolini anche negli stessi ambienti del fascismo. Approfittando di questa crisi, erano rinati i partiti antifascisti e gli operai ricominciarono a manifestare: nella primavera del 1943 ci furono i primi scioperi a Torino, nella Fiat, non solo di protesta contro la mancanza di pane, ma anche per la richiesta della pace – non dimentichiamo che scioperare, nel 1943, era ancora reato.

Tra il 9 e il 10 luglio 1943 le forze angloamericane sbarcavano in Sicilia e in poche settimane la liberavano: per la prima volta, gli eserciti nemici mettevano piede sul “sacro territorio nazionale”. Le sorti del regime erano irrimediabilmente compromesse.

I “45 giorni”: dal 25 luglio all’8 settembre 1944

Spinto dall’invasione della Sicilia, il 24 luglio Mussolini convocò il Gran Consiglio del Fascismo: è qui che si consumò la fine del regime fascista. L’ordine del giorno lo presentò Dino Grandi, proponendo di ripristinare tutte le funzioni statali e restituire al re il comando supremo dell’esercito, che in quel momento era in mano a Mussolini. L’«ordine del giorno Grandi» venne votato a maggioranza: tradotto, Mussolini non aveva più la fiducia dei suoi gerarchi, e fu costretto a dimettersi. Il 25 luglio Vittorio Emanuele III, che era a conoscenza della “congiura”, convocò a colloquio Mussolini a Villa Savoia e, al termine, lo fece arrestare dai Carabinieri. Alle 22.45 l’Eiar diede la notizia delle dimissioni del duce: dopo 20 anni finiva la dittatura in Italia.

Il 25 luglio iniziavano quelli che sono passati alla storia come i “45 giorni”, cioè quel periodo convulso che divise la caduta del fascismo dalla firma dell’armistizio, l’8 settembre. Giorni, inizialmente, di gioia per la popolazione, che scese in piazza ad abbattere i simboli del fascismo credendo che la guerra fosse finita, ma che si trasformarono presto in giorni tragici, forse ancora più duri di quelli precedenti. Primo, perché le manifestazioni per la pace vennero represse nel sangue dal governo, impaurito dal rinvigorirsi del comunismo e, comunque, formalmente ancora in guerra (ci furono 80 morti, oltre 300 feriti e 1.500 arresti); secondo, perché la Germania, nel frattempo, aveva iniziato l’occupazione del territorio italiano con ben 21 divisioni. Comunque, in quei giorni, in gran segreto, Badoglio aveva iniziato le trattative per firmare l’armistizio con le forze alleate. L’armistizio fu firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, ma la notizia fu data da Badoglio solo l’8 settembre: per l’Italia, la Seconda guerra mondiale era formalmente finita; iniziava il periodo della “cobelligeranza” contro le dittature al fianco delle democrazie occidentali.

Poco dopo la firma dell’armistizio, la famiglia reale e il governo legittimo abbandonarono Roma e l’Italia centro-settentrionale nelle mani dei tedeschi, senza dare ordini precisi all’esercito, per rifugiarsi a Brindisi sotto la protezione degli alleati. Il 9 settembre, l’Italia era un Paese diviso: territorialmente dalla «linea Gustav», che separava tedeschi e alleati da Gaeta a Pescara; all’interno della popolazione, tra fascisti e antifascisti, che negli anni successivi, secondo l’interpretazione di Claudio Pavone, diedero vita a una vera e propria guerra civile (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991). E, pochi giorni dopo, anche istituzionalmente, perché il 23 settembre nasceva e veniva riconosciuta dai paesi dell’Asse la Repubblica Sociale Italiana nel territorio occupato dai tedeschi, mentre al Sud il legittimo governo italiano continuava a esistere sotto la protezione degli alleati. Iniziavano, per l’Italia, gli anni più difficili: quelli vissuti come teatro di una guerra senza esclusione di colpi, le cui conseguenze furono pagate soprattutto dai civili.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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