Palermo, 16 dicembre 1987, aula bunker del carcere dell’Ucciardone.
Dopo 35 giorni di camera di consiglio – la più lunga della storia della giustizia italiana –, il presidente della Corte d’Assise di Palermo, Alfonso Giordano, pronunciò la storica sentenza che condannava a 19 ergastoli e oltre 2600 anni complessivi di carcere ben 346 dei 460 imputati di quello che passerà alla storia come il maxiprocesso a Cosa Nostra.
Era solo l’inizio di un iter processuale che si concluse cinque anni dopo, con la definitiva sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992, ma che fu gravido di tragiche conseguenze, perché diede l’avvio a una nuova stagione dell’attacco frontale della mafia siciliana allo Stato: quella delle stragi. Bisogna ricordare, però, che Cosa Nostra non era nuova ai cosiddetti “omicidi eccellenti”, cioè di uomini delle istituzioni. Li citiamo soltanto, sapendo che un approfondimento richiederebbe ben altro spazio: il capo della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano (1979), il giudice Cesare Terranova (1979), il segretario provinciale della Dc Michele Reina (1979), il procuratore generale di Palermo Gaetano Costa (1980), il presidente della Regione Piersanti Mattarella (1980), il segretario regionale del Pci Pio La Torre (1982) – da cui prende il nome la Legge Rognoni-La Torre, quella che ha introdotto nel Codice penale il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso –, il prefetto e generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982). Una prima anticipazione di questa nuova stagione fu nel 1983, quando un’autobomba carica di 70 chili di esplosivo uccise il magistrato Rocco Chinnici, direttore dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e vero ideatore del pool antimafia.
Erano, questi primi anni ’80, gli anni della cosiddetta “seconda guerra di mafia” e della vittoria dello «schieramento» dei corleonesi, quello che proponeva, appunto, l’adozione di una strategia stragista nei confronti dei suoi nemici e delle istituzioni. Questi anni ’80, infatti, sono anche quelli delle grandi indagini della magistratura palermitana nei confronti di Cosa Nostra e dei suoi rapporti con l’America, del pool antimafia, delle confessioni di Tommaso “Masino” Buscetta a Giovanni Falcone, della legge Rognoni-La Torre e delle prime confische dei beni mafiosi: insomma, è una stagione in cui la lotta alla mafia si rafforza e raggiunge i suoi primi, veri, risultati, che culminano nell’istruzione e nella sentenza del maxiprocesso.
La sentenza del maxiprocesso fu un colpo durissimo per l’organizzazione mafiosa, che per la prima volta si vedeva messa alla sbarra e condannata senza che nessuno, nelle istituzioni, intercedesse per lei. La reazione, allora, fu durissima. Sul versante politico, nel 1988 venne assassinato l’ex sindaco democristiano di Palermo, Giuseppe Insalaco, per dare un “messaggio” alla politica; messaggio che, evidentemente, non fu recepito da chi avrebbe dovuto, perché la linea dura del governo nei confronti dei mafiosi continuò per tutti i gradi di giudizio. Così, nel 1992, Totò Riina ordinò gli omicidi di quelli che le sentenze giudiziarie hanno riconosciuto essere importanti uomini politici democristiani con legami dentro Cosa Nostra, Ignazio Salvo e Salvatore “Salvo” Lima, colui che, come afferma Salvatore Lupo (La mafia, Donzelli, 2018), «almeno stando ai pentiti, assicurava i boss che la Cassazione avrebbe annullato la sentenza, che le cose sarebbero state aggiustate dallo “zio” Giulio, Andreotti insomma. Invece lo zio Giulio […] [nel maxi-processo] non mosse un dito per loro». La mafia cercò anche di interferire con la prosecuzione del processo: il 25 settembre 1988 venne assassinato Antonino Saetta, uno dei magistrati che aveva dato la disponibilità a presiedere l’appello del maxi-processo, e il 9 agosto 1991, a Villa San Giovanni, fu ucciso Antonino Scopelliti, il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione che avrebbe dovuto rappresentare l’accusa nell’ultima fase processuale.
Una premessa lunga questa, ma necessaria per spiegare gli eventi che hanno scosso la nazione nel 1992, all’indomani della storica sentenza della Cassazione che confermava per via giudiziaria l’esistenza della mafia.
23 maggio 1992. La strage di Capaci
Niente fermò l’iter giudiziario e allora Cosa Nostra, guidata in quel momento ancora dai corleonesi di Totò Riina, decise di colpire in maniera esemplare il nemico, di annientarlo. Il 23 maggio 1992, mentre rientrava in Sicilia da Roma per il fine settimana, Giovanni Falcone, il giudice istruttore del maxiprocesso e in quel momento direttore dell’ufficio Affari penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia, venne ucciso in una delle stragi più eclatanti della storia della Repubblica italiana: un mix di esplosivi con una potenza pari a 500 chili di tritolo venne posizionato sull’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci presso l’Isola delle Femmine. Poco prima delle 18:00, quando le tre auto-blindate che conducevano il Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta nel capoluogo siciliano, Giovanni Brusca schiacciò il bottone del radiocomando: le foto dell’autostrada divelta le abbiamo tutte negli occhi. Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonio Montinaro) morirono, 23 furono i feriti.
Giovanni Falcone non fu ucciso solo per il suo ruolo nel maxiprocesso, ma anche per quello che aveva fatto, che stava facendo e che rappresentava nella lotta alla mafia: era il volto più rappresentativo dell’antimafia in quel momento, aveva introdotto nel metodo investigativo contro Cosa Nostra alcune innovazioni fondamentali, in particolare l’indagine dei movimenti bancari; da Roma si era fortemente attivato per introdurre tutta una serie di norme e dispositivi che avrebbero reso più efficace la lotta alla mafia su tutto il territorio nazionale – la legge sui pentiti (approvata il 15 marzo 1991) e il secondo comma dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, quello che introduceva il carcere duro per i mafiosi (approvato solo l’8 giugno 1992, poco dopo la sua morte), l’estensione del metodo utilizzato a Palermo (il pool di magistrati specializzati che condividevano le informazioni) a livello centrale, con la creazione di organi sovralocali come la Direzione nazionale antimafia, le Direzioni distrettuali antimafia (Dda) e la Direzione investigativa antimafia (Dia), la Procura nazionale antimafia. Senza addentrarci nei risvolti politici della questione, che meriterebbero anch’essi un contributo a parte, bisogna dire che la morte di Falcone, come disse lui stesso, fu possibile solo perché fu lasciato solo dallo Stato: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».
19 luglio 1992. La strage di via d’Amelio
57 giorni dopo la strage di Capaci, i corleonesi colpirono l’altro magistrato simbolo della lotta alla mafia in Sicilia: Paolo Borsellino. Il 19 luglio 1992, in via Mariano d’Amelio 21, di fronte alla casa della madre cui era solito recarsi di domenica, poco prima delle 17:00 una Fiat 126 contenente 90 chili di esplosivo saltò in aria, distruggendo le auto parcheggiate, causando gravi danni ai palazzi circostanti e, soprattutto, uccidendo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina e la prima donna a far parte di una scorta, Emanuela Loi; altri 26 rimasero feriti.
Sulla strage di via d’Amelio tante pagine sono state scritte, in particolare riguardanti l’agenda rossa di Borsellino scomparsa, i depistaggi, i presunti mandanti occulti, il coinvolgimento nell’assassinio di settori deviati dello Stato e le implicazioni con la cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Argomenti su cui non sempre si può scrivere qualcosa di definitivo, perché i vari filoni apertisi nel processo per la strage, nei loro vari gradi di giudizio, sono ancora in corso. Quantomeno, le sentenze hanno chiaramente stabilito i mandanti dell’omicidio – tutto il Gotha della mafia siciliana, da Totò Riina a Giuseppe “Pippo” Calò, da Benedetto “Nitto” Santapaola a Matteo Messina Denaro, da Bernardo Provenzano ai fratelli Graviano (gli stessi della strage di Capaci) – e gli esecutori materiali, tra cui spiccano i nomi di Giuseppe Graviano, Gaspare Spatuzza, Salvatore Cancemi, Raffaele Ganci.
L’arresto di Totò Riina e le stragi del 1993
La reazione alle stragi fu eccezionale. Da un lato, si consolidò e si rafforzò il fronte dell’antimafia “civile”, quello composto dai cittadini e dalle associazione della società civile – come l’associazione Libera, fondata da don Luigi Ciotti nel 1995 –; dall’altro, lo Stato imboccò decisa la strada della repressione: il Parlamento approvò all’unanimità le leggi sul 41bis e sulla protezione dei pentiti; il ministro della Giustizia Martelli approvò il trasferimento notturno di centinaia di mafiosi nelle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara; vennero intraprese nuove ed efficaci indagini, che portarono alla scoperta di arsenali di armi e, soprattutto, all’arresto di un numero eccezionale di mafiosi, tra cui i massimi vertici dell’organizzazione. Il primo fu, il 15 gennaio 1993, Totò Riina, catturato dopo uno spettacolare inseguimento in auto tra le vie del centro di Palermo.
L’arresto del “capo dei capi” non bastò, però, a mettere fine alle bombe. Spesso vengono dimenticati, ma tra il maggio e il luglio del 1993 (con un’appendice nel gennaio 1994, con il fortunatamente fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma), Cosa Nostra organizzò e portò a termine una serie di attentati bombaroli, di matrice diversa rispetto ai precedenti: non indirizzati contro il nemico, questa volta, ma veri e propri attentati terroristici che richiamavano l’oscura stagione dello stragismo “nero” degli “anni di piombo”.
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, un’autobomba confezionata da Gaspare Spatuzza e Francesco Giuliano esplose in via dei Georgofili, distruggendo la sede dell’Accademia dei Georgofili e danneggiando alcuni ambienti della Galleria degli Uffizi. Il bilancio fu di cinque morti e decine di feriti.
La sera del 27 luglio 1993, in via Palestro a Milano, presso il padiglione d’Arte Contemporanea, una Fiat Uno imbottita di esplosivo saltò in aria mentre una squadra dei Vigili del Fuoco, che era stata avvertita di quella strana auto da cui fuoriusciva del fumo bianco, accertava la presenza di una bomba al suo interno: le vittime furono cinque e anche in questo caso alcune aree della Galleria d’arte moderna furono danneggiate – in particolare, crollò il muro esterno del Padiglione d’Arte Contemporanea.
Nemmeno un’ora dopo, poco dopo la mezzanotte del 28 luglio, altre due Fiat Uno trasformate in autobombe esplosero a Roma, una in piazza San Giovanni in Laterano, nei pressi della basilica e del Palazzo del Laterano, l’altra di fronte alla chiesa di San Giorgio in Velabro, che in totale causarono 22 feriti e danni ai monumenti.
Perché le stragi? Certo, non si deve escludere la ritorsione nei confronti dello Stato per quella nuova stagione di attivismo antimafia. Ma, come ha affermato il magistrato Roberto Scarpinato, quelle bombe «svolgevano anche un ruolo di comunicazione politica. Si stava facendo un discorso a qualcuno con quelle bombe, ed è un discorso che si muove contemporaneamente su due piani: da una parte la trattativa, per alcuni, e cioè indurre lo stato a capitolare dinanzi alle richieste dei vertici di Cosa Nostra, e quindi la revisione dei processi, la revoca di alcuni provvedimenti di legge come quelli del 41bis, benefici penitenziari per i boss che erano stati condannati. Ma, contemporaneamente, quelle stragi si iscrivono in una strategia politica che è molto più complessa, che è quella appunto di accelerare la destabilizzazione di un Paese, qual era l’Italia, che in quel momento era falcidiata da Tangentopoli; determinare una situazione di crisi, arrivare alle elezioni in una situazione di panico collettivo». Ma, conclude il magistrato: «La strategia stragista bellica a un certo punto viene stoppata, si interrompe. La spiegazione che danno diversi collaboratori è che viene messa da parte perché alla soluzione bellica si preferisce una soluzione per via politica, ma su questo punto io mi fermo».
Ciò che è certo è che le indagini milanesi del pool di Mani Pulite e le stragi di mafia del 1992-93 hanno impresso una svolta determinante al Paese. La crisi dei partiti tradizionali e la sfiducia della società nei confronti della politica favorirono l’ascesa di nuovi attori: uno su tutti, Silvio Berlusconi. Insomma, le stragi di mafia si pongono alla base di quella è stata definita “Seconda Repubblica”.