Roma, 30 maggio 1924. Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario, ha appena tenuto di fronte alla Camera un discorso al vetriolo chiedendo di invalidare i risultati delle elezioni svoltesi il 6 aprile, vinte dal “listone” fascista.
Matteotti ha denunciato che «nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere secondo la sua volontà»: le squadre fasciste presidiavano i seggi e i deputati socialisti erano stati perseguitati per tutto il periodo elettorale. «Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario, che è al governo e dispone di tutte le forze armate!», aveva detto.
In aula era scoppiata la bagarre: grida, insulti, tafferugli. Il presidente della Camera, Alfredo Rocco, l’aveva quasi zittito, chiedendogli di «concludere […] non provochi incidenti!». Matteotti esce da Palazzo Montecitorio accompagnato dal suo compagno di partito, Giovanni Cosattini; mentre si immettono in piazza del Parlamento, ironicamente gli sussurra: «ora preparatevi a fare la mia commemorazione».
Un antifascista intransigente
Nato il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, nel basso Veneto, Giacomo Matteotti era, nel 1924, l’esponente più in vista del socialismo italiano e il principale oppositore del fascismo. Nonostante la giovane età, aveva già una lunga carriera politica alle spalle: si era iscritto al Psi al volgere del secolo e presto ne era diventato un membro di spicco nel rodigino, dove ricoprì più volte cariche amministrative a livello locale. Durante il «biennio rosso» lo troviamo alla guida degli scioperi e delle lotte bracciantili nel Polesine. Proprio qui, dove maggiori erano state le agitazioni, più pesante fu la reazione dello squadrismo fascista: a partire dal 1920, gli assalti alle Camere del Lavoro e alle sedi dei sindacati, i luoghi simbolo della presenza dei “rossi” sul territorio, e le aggressioni ai leader delle proteste divennero sempre più frequenti e più violente. Anche Matteotti ne subì una: il 12 marzo 1921 fu sequestrato, malmenato e, sembra, anche se non ci sono conferme, fu perpetrata su di lui un’orribile violenza sessuale – crudo ma efficace è il racconto dell’episodio immaginato da Antonio Scurati nel suo romanzo M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018).
Eletto per la prima volta in Parlamento nel 1919, Matteotti non mancò mai di denunciare il clima violento creatosi nel Paese, e lo fece in maniera ancora più capillare dal 1922, quando la recrudescenza degli attacchi squadristi lo convinse che il fascismo era il problema: la benevola indifferenza e le connivenze nei confronti delle violenze perpetrate mostravano infatti che il fascismo era un fenomeno non effimero, ma che esprimeva, in qualche modo, un sentimento diffuso. Lo fece in Parlamento come leader dell’opposizione, ma anche sulla stampa, nazionale e internazionale. Fu, con ogni probabilità, questa linea di intransigente antifascismo a condannarlo.
Quel 10 giugno 1924
Il pomeriggio di martedì 10 giugno 1924, alle 16.30, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma, un commando composto da cinque fascisti avvicina Matteotti, lo aggredisce e, dopo una breve colluttazione, lo rapisce, caricandolo su una Lancia Lambda grigia noleggiata per l’occasione – ma che era già stata notata aggirarsi in modo sospetto nel quartiere il giorno prima, al punto che i portieri di uno stabile ne avevano segnata la targa credendo fossero dei ladri. All’interno dell’auto la lotta è furibonda, ma non sappiamo con precisione quanto sia durata: Matteotti ha ancora il tempo di lanciare il suo tesserino da deputato dal finestrino dell’auto prima che questa sfrecci a tutta velocità verso ponte Milvio, pare suonando il clacson per coprire le grida della vittima. È questa l’ultima azione nota di Matteotti: da quel momento, per oltre due mesi, sulla sua sorte si poterono fare solo supposizioni, anche se la speranza di ritrovarlo vivo non la nutriva più nessuno. E infatti il 16 agosto, nei pressi del bosco della Quartarella, poco fuori Roma, fu ritrovato il suo cadavere: l’esame autoptico stabilì che la morte fu provocata da una pugnalata sul lato sinistro del busto, all’altezza del cuore, molto probabilmente inferta poco dopo il sequestro.
I cinque membri del commando erano noti e pluripregiudicati squadristi: Amerigo Dùmini, Albino Volpi, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola e Augusto Malacria. Dùmini e Volpi, in particolare, avevano una discreta “carriera” alle spalle e conoscenze alle massime sfere del Partito nazionale fascista: Dùmini era amico personale di Cesare Rossi, capo dell’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, e addirittura era stipendiato dal Viminale; Volpi era invece un protetto di Mussolini, già da lui utilizzato per operazioni di polizia politica. A ciò si aggiunga che il Pnf aveva appena vinto le elezioni, Mussolini avocato a sé il ministero degli Interni e capo della Polizia era stato nominato Emilio De Bono, uno dei quadrumviri della marcia su Roma e ora senatore, ed ecco che l’affaire assume i tratti del “delitto di Stato”, dall’esito scontato: l’impunità. Eppure, nelle settimane successive, prima ancora del ritrovamento del cadavere, e nonostante i tentativi di fuga, tutti e cinque furono arrestati.
La vicenda processuale
Le indagini della polizia non condussero solo agli esecutori materiali del crimine; d’altronde, era difficile credere che un gesto così eclatante fosse frutto di un isolato gruppo di esaltati. Nonostante i tentativi di depistaggio, ben presto furono investiti dalle accuse anche alcuni “pezzi grossi” del fascismo: Cesare Rossi e Giovanni Marinelli furono accusati di aver ordinato il sequestro di Matteotti e Filippo Filippelli – direttore del «Corriere Italiano» – di aver noleggiato la Lancia. Anche De Bono fu coinvolto ma, in quanto senatore, fu processato dal Senato riunito in Alta Corte di Giustizia, che concludeva con il non luogo a procedere. Responsabilità a livello più alto non furono riconosciute, ma i fatti riguardanti la vicenda processuale lasciano più di qualche ombra sulla connivenza del vertice stesso del partito, Mussolini.
Tra il dicembre 1925 e il marzo 1926 furono chiarite le responsabilità di tutti gli indagati: Viola e Malacria furono assolti; Rossi e Marinelli ordinarono il solo sequestro del deputato, ma non la sua uccisione; Filippelli aveva cooperato fornendo l’auto; Dùmini, Volpi e Poveromo furono condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni ciascuno per omicidio preterintenzionale. Tuttavia, gli anni complessivi scontati di carcere furono poco meno di sei. Perché? Anticipando l’esito delle indagini, il 31 luglio 1925, con un Regio Decreto, il governo aveva concesso l’amnistia «per i reati determinati da movente politico o che abbiano comunque connessione con fini politici, escluso l’omicidio consumato, anche se preterintenzionale»: Rossi, Marinelli e Filippelli erano salvi, i loro reati rientravano nell’amnistia. Quelli di Dùmini, Volpi e Poveromo no, ma l’articolo 4 del decreto prevedeva anche il condono della detenzione fino a 4 anni «per i reati determinati da movente politico o che abbiano comunque connessione con fini politici»: i tre, che già avevano scontato un anno e 9 mesi in carcere in attesa del processo, tornarono in libertà due mesi dopo la sentenza.
Perché fu ucciso?
Sui motivi dell’uccisione di Matteotti sono state formulate diverse ipotesi. La più accreditata interpreta il delitto come il tentativo di “tappare la bocca” al deputato sui brogli che avevano portato i fascisti al governo. Altra linea interpretativa è la cosiddetta “pista affaristica”, sostenuta, tra gli altri, da Mauro Canali (Il delitto Matteotti, Il Mulino, 1997, oggi considerata la ricostruzione più completa della vicenda). Secondo lo storico, dietro l’omicidio c’era un giro di tangenti che avrebbe coinvolto «alti funzionari» del fascismo nel far approvare un decreto-legge che concedeva alla Sinclair Oil, compagnia petrolifera americana, l’esplorazione del sottosuolo italiano. Matteotti, durante un suo viaggio a Londra, sarebbe entrato in possesso di documenti che dimostravano questa losca trama, ed era intenzionato a presentarli in Parlamento l’11 giugno. Un altro autorevole storico, Vittorio Vidotto (1924. Il delitto Matteotti, Laterza, 2007), sostiene invece che il delitto non fu premeditato, ma fu piuttosto una spedizione punitiva finita male, visti la «scarsissima professionalità» dei rapitori e il fatto che nessuno ha evitato il loro arresto. Questo, comunque, non vuol dire che Mussolini non ne fosse a conoscenza, anzi: Vidotto è molto netto quando afferma che egli non poteva non sapere della spedizione e, in qualche modo, avallarla.
Gli esiti
Le interpretazioni, dunque, sono diverse, ma tutte affidano un ruolo al capo del governo. Mussolini, a sua discolpa, il 13 giugno affermò in Parlamento che «solo un mio nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore». Era un goffo tentativo di chiamarsi fuori da ogni sospetto, ma queste parole furono quasi profetiche. I 6 mesi successivi al delitto, infatti, furono i più difficili per il governo, che vide pian piano sgretolarsi il consenso che era riuscito a costruirsi: i socialisti disertarono la Camera (la nota strategia dell’«Aventino»), le forze parlamentari che avevano appoggiato il fascismo ne presero le distanze, gli squadristi arrivarono quasi a ripudiare Mussolini perché chiedeva loro di normalizzarsi, invece di usare il pugno di ferro; l’opinione pubblica lo stava abbandonando. Insomma, il fascismo fu quasi sul punto di cadere. Mussolini, forse per la prima volta, tentennò per mesi ma, all’inizio del 1925, decise di rompere gli indugi, e con un famosissimo discorso alla Camera, il 3 gennaio, si assunse «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo, fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba, della migliore gioventù italiana, a me la colpa. Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io ne sono il capo». Da quel momento, Mussolini riprese in mano le redini del potere e, di lì a pochi mesi, diede avvio alla costruzione del regime con l’emanazione delle «leggi fascistissime».