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Giuseppe Mazzini

Proviamo a scrivere “risorgimento italiano” nella barra di ricerca di Google, e poi selezioniamo “immagini”. Ebbene, la prima che esce vede raffigurati, sulla sinistra, incorniciati, nell’ordine Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi, e al centro una scena della spedizione dei Mille. Se scendiamo alla quarta riga, troveremo un’immagine ancora più emblematica: i primi piani di Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Cavour e, leggermente scostato, di Mazzini campeggiano davanti a una bandiera del Regno d’Italia (la riconosciamo perché, sul bianco, è raffigurato lo stemma dei Savoia). Ebbene, queste immagini sono retaggio di un’interpretazione del Risorgimento creata alla fine degli anni ’70 dell’Ottocento da una precisa fazione politica, la Sinistra storica, e con una precisa finalità, quella di presentare l’unità d’Italia come la collaborazione tra tutte le forze politiche del Risorgimento favorevoli all’unificazione. La realtà è però leggermente diversa, in particolare per uno di quei quattro personaggi: Giuseppe Mazzini. Esploriamone i motivi.

La giovinezza e l’esilio

Iniziamo da alcuni dati biografici, che sono significativi per comprendere il suo orientamento politico. Mazzini nacque il 22 giugno 1805 a Genova da una famiglia della borghesia medio-alta e negli anni giovanili aderì agli ideali romantici che si stavano diffondendo in Italia: fece propri i concetti di nazione, di popolo, di liberazione dall’oppressione straniera, che saranno sempre centrali nel suo pensiero politico.

Nel 1827, a 22 anni, mentre si laureava in giurisprudenza, entrò nella Carboneria, setta di tendenza democratica molto diffusa nell’Italia settentrionale, spinto dal desiderio di scendere sul terreno pratico per realizzare i suoi ideali democratici e repubblicani. L’esperienza, comunque, non durò molto: nel novembre del 1830 venne arrestato e incarcerato a Savona e, liberato due mesi dopo, scelse la via dell’esilio, prima a Ginevra, poi a Lione e, infine, a Marsiglia. Proprio in Francia, Mazzini venne a contatto con i maggiori esponenti dell’emigrazione politica italiana e, più in generale, con una cultura politica più ampia e articolata.

Il periodo francese fu fondamentale nella creazione di un pensiero politico autonomo e originale, che ebbe ampia diffusione e per il quale venne creato un neologismo: «mazzinianesimo». In questi stessi anni si consumava la separazione definitiva dalla Carboneria: il fallimento dei moti del 1830-31 ne mostrarono a Mazzini tutti i limiti, soprattutto l’eccessiva segretezza. È per questo che, nel luglio del 1831, a Marsiglia, decise di fondare la propria organizzazione, la Giovine Italia.

Il pensiero politico

Quando diede vita alla Giovine Italia, a 26 anni, il pensiero politico di Mazzini era già strutturato nella sua forma definitiva. Esso dipendeva da due capisaldi: la fede incondizionata nella Repubblica, e di conseguenza nella democrazia, e l’idea di nazione.

Per quanto riguarda la prima, una certa influenza potevano avere avuto le sue origini – Genova aveva alle spalle una lunga tradizione repubblicana, motivo per cui l’annessione al Piemonte nel 1815 fu aspramente osteggiata dalla maggior parte dei genovesi – ma, soprattutto, la ebbero le correnti di pensiero con cui entrò in contatto nell’esilio francese: il giacobinismo di Buonarroti, le idee socialiste di Saint-Simon e il repubblicanesimo radicale francese.

Per Mazzini, la nazione doveva intendersi soprattutto come un’entità culturale e spirituale, un popolo, da cui discendeva direttamente la seconda accezione di nazione, cioè una comunità etnica e territoriale. Storicamente, alcuni popoli erano riusciti a liberarsi dalle catene straniere e a dare vita a nazioni indipendenti; altri invece, come quello italiano, erano ancora oppressi o divisi politicamente, e perciò si trovavano in una condizione di ritardo, ma nondimeno formavano una comunità unica. Compito dei popoli era proprio quello di raggiungere l’indipendenza dalle dominazioni e dare vita a un’unità politica in cui le due anime insite nel concetto di nazione combaciassero perfettamente.

Questa elaborazione non si può comprendere a fondo senza tenere conto del fortissimo contenuto religioso del pensiero di Mazzini. La sua era una religiosità laica, molto distante da quella cristiana: Il Dio di Mazzini non era un’entità trascendente, ma piuttosto si identificava con lo spirito insito nella storia, cioè l’affermazione della libertà e del progresso dell’umanità. Proprio questa era la missione ultima dei popoli, facente parte del disegno divino – di qui la famosa formula «Dio e il popolo» –: la creazione di nazioni non era fine a sé stessa, ma prevedeva una loro associazione e cooperazione per il bene comune e, obiettivo finale, per il raggiungimento della libertà e del progresso umani.

La Giovine Italia

In che modo si traducevano questi ideali nella realtà? La risposta era contenuta nel manifesto programmatico della Giovine Italia, l’Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia, pubblicato nel 1831. Un programma politico chiarissimo, che ribadiva alcuni degli elementi analizzati prima applicandoli direttamente alla situazione italiana: l’Italia, geograficamente definita dalle Alpi alle isole, dalle «bocche del Varo» a Trieste (art. 2), era chiamata a diventare una nazione – intesa come «l’universalità degli italiani, affratellati in un patto e viventi sotto una legge comune» (art. 3) – «una, indipendente, sovrana» (art. 1) e «repubblicana […] perché tutti gli uomini d’una nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’umanità, ad esser liberi, eguali e fratelli; e l’istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire» (art. 3).

Come realizzare questi obiettivi? Mazzini era molto netto: tramite «l’educazione e l’insurrezione», legate inscindibilmente, poiché «l’educazione, cogli scritti, coll’esempio, colla parola, deve conchiudere sempre alla necessità e alla predicazione dell’insurrezione». L’insurrezione, l’unica «destinata a formare un popolo» e che avrebbe agito «in nome del popolo», si collocava a uno stadio precedente rispetto alla rivoluzione e avrebbe avuto le forme di una «guerra per bande» per liberare «tutto il territorio italiano continentale» dall’oppressione straniera. Il suo successo avrebbe condotto alla formazione di un «Concilio nazionale», l’«unica sorgente d’autorità dello Stato» (art. 4), e all’istituzione della Repubblica. È chiaro che un programma del genere non contemplava compromessi di nessuna sorta: né con soluzioni diverse dalla repubblica, né attraverso mezzi differenti dall’insurrezione.

L’attività cospiratrice

L’attività della Giovine Italia fu da subito intensa e indirizzata principalmente al Regno di Sardegna, ma l’esperienza durò poco e terminò malamente: una trama cospirativa fu scoperta nel 1833 e repressa dalle autorità, che decimarono la Giovine Italia piemontese (ci furono ben 27 condanne a morte); l’anno successivo, Mazzini, sempre in esilio, tentò di organizzare una duplice insurrezione, in Savoia e a Genova, ma anche queste non ebbero successo – a quest’ultima partecipò anche Garibaldi che, fuggito per timore di essere scoperto, venne condannato, così come Mazzini stesso, alla «pena di morte ignominiosa» in contumacia.

Questi fallimenti, uniti alle critiche che li accompagnarono – quelle di aver “sacrificato” tanti giovani patrioti – e a dispiaceri sul piano personale, fecero riflettere Mazzini sulla bontà delle sue idee: è il periodo che lui stesso ha chiamato la «tempesta del dubbio», ma che durò poco e che rinsaldò la convinzione nella causa per la quale combatteva.

Così, nel 1840 Mazzini rifondò la Giovine Italia, che dopo il ‘34 si era quasi dissolta, ma con scarsa fortuna: in parte per l’azione di informatori e spie, in parte per tante, nuove critiche che piovvero sull’organizzazione dopo il fallimento di diversi tentativi insurrezionali verificatisi per tutti gli anni ’40 e ’50 – organizzati non sempre da Mazzini ma che a lui furono attribuiti, come quello dei fratelli Bandiera nel ’45.

Negli anni dell’unificazione

Nel frattempo, era mutato completamente il contesto in cui i mazziniani si trovarono a operare: nel 1848-49 c’erano stati moti rivoluzionari in tutta Italia, Carlo Alberto aveva emanato lo Statuto albertino e Vittorio Emanuele II lo aveva confermato, c’era stata l’esperienza della Repubblica Romana – dove Mazzini era stato eletto triumviro  –, si erano sviluppate nuove correnti politiche, sia moderate che democratiche, che perseguivano l’unità d’Italia, ma con modi e mezzi diversi da quelli mazziniani.

Il suo prestigio era in netto calo, così come la sua leadership sullo stesso movimento democratico: molto critici nei suoi confronti furono il federalista Carlo Cattaneo, Daniele Manin, Giacomo Medici, Enrico Cosenz, Nino Bixio e anche Garibaldi. Stretto sia da destra che da sinistra, e sempre più isolato nelle sue posizioni, per Mazzini si profilò una lenta uscita di scena dal vivo della politica italiana. Un ultimo tentativo di indirizzare le sorti della penisola lo fece nel settembre del 1860, recandosi a Napoli per convincere Garibaldi a non cedere il Mezzogiorno e la Sicilia a Vittorio Emanuele e convocare un’Assemblea costituente che decidesse il futuro dell’Italia. Ma non fu ascoltato.

Gli ultimi anni di Mazzini furono caratterizzati da una grande opera di educazione civile, realizzata con la pubblicazione de I doveri dell’uomo (1860); dalla lotta al comunismo e all’anarchismo; dall’organizzazione del movimento operaio e l’attenzione ai suoi problemi; dalla critica alle condizioni della società italiana. Tentò ancora di organizzare nuovi moti rivoluzionari, con l’obiettivo di far cadere la monarchia e prendere Roma, ma senza successo. Durante uno di questi tentativi, nell’agosto del 1870, fu arrestato e liberato poco dopo. Gravemente malato da tempo, nel febbraio 1872 si trasferì a Pisa, dove morì il 10 marzo.

Un padre della patria?

Torniamo all’immagine di Mazzini accostato a Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II sotto la bandiera del Regno d’Italia. Ebbene, poche cose erano più lontane dal futuro che egli immaginava per l’Italia: era ostile alla monarchia, contrario ai progetti politici moderati e liberali che Cavour rappresentava, e in fondo anche con Garibaldi non era più corso buon sangue da quando il generale aveva aderito al progetto monarchico-costituzionale sabaudo. E lo stesso valeva per gli altri tre: dell’ostilità di Garibaldi si è già detto, ma ancor peggio era visto da Cavour e dal re Vittorio, per i quali Mazzini rappresentava un pericoloso rivoluzionario, un terrorista, un nemico. Non dobbiamo poi dimenticare che la maggior parte della sua vita Mazzini la visse in esilio, con due condanne capitali che pendevano sulla sua testa – amnistiate solo nell’ottobre del 1870, dopo la presa di Roma.

Dunque, possiamo considerare Mazzini un padre della patria? Io credo che si possa dare una risposta affermativa a questa domanda, per diversi motivi: per la diffusione delle sue idee, che animarono almeno due generazioni di giovani; per l’instancabile opera di educazione civile e patriottica che svolse in prima persona con i suoi scritti; per l’intensa attività che, sebbene non ebbe un successo pratico, entrò di diritto nel gioco di cause ed effetti che portò all’unificazione nazionale – perché, ricordiamolo, l’Italia unita non si sarebbe mai potuta fare senza lo scontro tra forze moderate e democratiche. Bisogna, però, stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio, a non attribuire agli attori intenti che non appartenevano loro. Il rischio, altrimenti, è che, nel tentativo di semplificare un processo complesso, si offra un’immagine distorta degli eventi: e questo, a livello metodologico, è una delle cause che rende più semplice l’affermarsi di tentativi di revisionismo storico.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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