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Giuseppe Garibaldi, l'”eroe dei due mondi”

3 giugno 1882.

L’Italia intera si è svegliata, questo sabato mattina, scossa, turbata, malinconica. La notizia non era inaspettata: tutti sapevano che il Generale da decenni soffriva di una grave forma di artrite, e si vociferava che fosse tornato dal suo ultimo viaggio in Sicilia con una pericolosa malattia. Ma nessuno era pronto ad affrontare il momento, a leggere la notizia e, soprattutto, ad accettarla. Eppure, i quotidiani non mentivano. A Torino, la «Gazzetta Piemontese» (l’odierna «Stampa»), titolava in prima pagina, a caratteri cubitali, «Giuseppe Garibaldi». Un campanello d’allarme. L’editoriale iniziava, brutale: «Giuseppe Garibaldi è morto! In lui si spegne l’ultimo dei più potenti fattori dell’unità d’Italia, il più grande eroe dell’epopea del nostro risorgimento politico». Il «Corriere della Sera» non lasciava nemmeno la suspence: «La morte del generale Garibaldi», scritto in maiuscolo, campeggiava sotto il titolo del giornale; «Il primo de’ patrioti italiani è morto».

Sì, perché il giorno precedente, il 2 giugno 1882, nel tardo pomeriggio, moriva nella sua Caprera, attorniato dalla moglie e da un medico, Giuseppe Garibaldi, l’«eroe dei due mondi». Per giorni notizie sulla morte generale occuparono le prime pagine della «Gazzetta Piemontese» e del «Corriere della Sera»: entrambi pubblicarono a puntate una “vita di Garibaldi” dai toni epici, il «Corriere» si impegnò a scrivere i resoconti delle celebrazioni che si svolsero nelle città italiane – da Torino a Napoli, da Catania a La Spezia – e a raccogliere i titoli dei quotidiani che, da ogni parte d’Europa, riportavano la grande notizia – persino in Austria, Paese contro cui Garibaldi combatté in due guerre, scriveva che «l’alloro tante volte sciupato e profanato, si addice a Garibaldi come guerriero e come cittadino, e innanzi alla sua tomba si inchineranno non solo gli Italiani, ma anche gli stranieri. E la sua tomba deve essere nel Pantheon; si, là a fianco di Vittorio Emanuele deve riposare per sempre l’estinto eroe d’Italia».

Insomma, tutto il mondo era consapevole, anche chi più aveva perso dalle sue imprese, che assieme a Garibaldi non solo spariva uno dei più grandi personaggi della storia recente, ma finiva un’epoca della storia europea.

Giovinezza ed esilio in Sudamerica

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807, allora parte dell’impero francese – era infatti registrato all’anagrafe come Joseph Marie Garibaldi –, da una famiglia di marinai liguri. Anche lui intraprese questa strada, ottenendo il brevetto di marinaio di lungo corso e avviandosi alla carriera di marinaio mercantile. Ciò gli permise di solcare i mari in lungo e in largo, entrando in contatto con ambienti molto differenti tra loro: si recò molto spesso nel Mar Nero e nel confinante Mar d’Azov, a Costantinopoli e nei principali porti del Mediterraneo. E in quanto giovane uomo di mare fu lontano dalle lotte per la libertà e l’indipendenza nazionale che infiammarono l’Europa degli anni ’20-’30 dell’Ottocento, pur rimanendo colpito da alcune, pochissime notizie che la censura non riusciva a bloccare – nel 1840 chiamò il suo primogenito Menotti, in onore del patriota emiliano morto a Modena nel 1831.

Fu proprio uno dei suoi viaggi a cambiargli la vita e iniziarlo alla politica. Nel marzo 1833, la nave su cui lavorava imbarcò un gruppo di francesi diretti a Costantinopoli, che si rivelarono essere dei sansimoniani: movimento politico francese di stampo socialista, fondato da Claude-Henri de Saint-Simon, il sansimonismo predicava l’uguaglianza, la pace, la libertà, la realizzazione della giustizia sociale, l’unità dei popoli. In particolare, lo colpì un’affermazione: «l’uomo, il quale, facendosi cosmopolita, adotta l’umanità per patria e va ad offrire la spada e il sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannia, è più di un soldato: è un eroe». Questa filosofia lo accompagnò per il resto della sua vita, indirizzando la scelta delle cause per cui combattere. Trovò subito il modo per trasformare questi ideali in realtà: negli stessi mesi entrò in contatto con il pensiero di Mazzini e conobbe la Giovine Italia, decidendo subito di partecipare a quell’esperienza e dedicarsi alla causa italiana.

Garibaldi fu subito molto attivo. Arruolatosi nella Marina sarda alla fine del 1833, partecipò al progetto dell’insurrezione genovese, prevista per il 1834, che nei piani Mazzini avrebbe dovuto affiancare la spedizione in Savoia. Il progetto fallì e Genova non insorse, ma Garibaldi, temendo di essere scoperto, preferì riparare a Marsiglia e, da qui, nel 1835 partì per Rio de Janeiro. Non aveva torto: era già lontano quando scoprì che il tribunale militare di Genova lo aveva condannato «alla pena di morte ignominiosa».

L’esperienza in Sudamerica è probabilmente quella che ha formato maggiormente Garibaldi, offrendogli la possibilità di diventare quello strenuo combattente per la libertà per cui ancora oggi, a quasi 150 anni dalla sua morte, è ricordato – oltre ai tratti esteriori con cui lo identifichiamo, il poncho e la camicia rossa. Qui poté mettere in pratica per la prima volta quella frase che gli era rimasta scolpita in testa: lottare per la libertà lo avrebbe fatto diventare un eroe, l’«eroe dei due mondi». La situazione geopolitica sudamericana di quegli anni, infatti, era in subbuglio. Terminato il regime coloniale portoghese e spagnolo, le rivendicazioni territoriali dei nuovi stati nati sfociavano spesso in guerre civili, ognuna presentata come una lotta per l’indipendenza e la libertà. E a queste Garibaldi partecipò, prima arruolandosi nell’esercito della Repubblica del Rio Grande che era in lotta con il Brasile, poi per l’Uruguay, la cui indipendenza era minacciata dall’Argentina. È in questi anni che Garibaldi divenne famoso in tutto il mondo: le epiche battaglie, le ardite strategie, le vittorie insperate – come quella di San Antonio del Salto, del febbraio 1846 –, ma anche la fama di uomo disinteressato, incorruttibile e generoso, lo resero il prototipo ideale del combattente-patriota, ammirato ovunque vi fosse da combattere contro una dominazione straniera – e non solo.

Era la fine degli anni ’40, l’Europa era in ebollizione e Garibaldi – che nel frattempo aveva sposato una giovane brasiliana, Ana Maria de Jesus Ribeiro, meglio conosciuta come Anita, e aveva avuto tre figli, Menotti, Teresita e Ricciotti – era pronto a tornare, richiamato dalla causa italiana. Lo fece il 21 giugno 1848, nel pieno della Prima guerra d’indipendenza.

Il pensiero politico e l’epopea risorgimentale

La partecipazione di Garibaldi alla causa italiana ha ruotato tutta attorno alla lotta per la libertà e l’indipendenza, a cui ha sacrificato alcune delle sue convinzioni più propriamente politiche. Alcune delle sue idee politiche le ha elencate Alessandro Barbero, nella sua lezione sul Carattere degli italiani dedicata a Garibaldi: abolizione della pena di morte; imposta progressiva sul reddito; istruzione obbligatoria, gratuita e laica; allargamento del suffragio fino al suffragio universale. Ostile al militarismo e al colonialismo, in vecchiaia si avvicinò a posizioni socialiste e pacifiste, ma fu sempre un nazionalista nel senso ottocentesco, cioè un patriota. Insomma, le sue erano le tradizionali posizioni democratiche e repubblicane ottocentesche, cui si aggiungeva una filantropia e un’umanità non comuni.

Abbiamo tralasciato un punto, quello che Garibaldi fu costretto a sacrificare in nome dell’ideale di libertà che lo muoveva: era un repubblicano convinto, e infatti partecipò con fervore e da protagonista indiscusso nella strenua difesa della Repubblica romana contro le truppe francesi – una delle pagine più gloriose del Risorgimento italiano. Il fallimento delle rivoluzioni del ’48 e la continuazione dell’esperienza liberale del Regno di Sardegna lo convinsero che, per l’Italia, l’unico modo di cacciare gli austriaci e raggiungere l’unità politica era «rannodarsi intorno alla bandiera del Piemonte» e collaborare con la monarchia sabauda. «Italia e Vittorio Emanuele» è la linea politica che Garibaldi seguì a partire dalla sua iscrizione alla Società nazionale nel luglio del 1856, concretizzatasi poi nella partecipazione alla Seconda guerra d’indipendenza come generale dell’esercito sardo, alla testa dei Cacciatori delle Alpi, e, soprattutto, nella travolgente spedizione dei Mille.

Garibaldi, tuttavia, non era “ricambiato” (se così possiamo dire) della stessa stima da parte di re Vittorio Emanuele e di Cavour. I suoi ideali, il suo disinteresse verso le ricompense materiali, la sua scarsa dimestichezza con le bassezze e le astuzie necessarie in politica lo rendevano, agli occhi di un personaggio come Cavour, un ingenuo, un idealista, uno facile da manovrare e da ingannare, da usare finché era utile e nelle imprese più ardimentose, perché tanto, se fossero andate male, in fondo era un mazziniano, un repubblicano, un rivoluzionario. Alessandro Barbero racconta di un colloquio emblematico avvenuto tra Vittorio Emanuele e l’ambasciatore di Francia, poco dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala: «Dio mio, sarebbe stata certo una disgrazia se gli incrociatori borbonici avessero catturato e impiccato il mio povero Garibaldi. Ma una sorte così triste sarebbe proprio andata a cercarsela da sé. Le cose si sarebbero molto semplificate a quel modo. Che bel monumento gli avremmo fatto!».

Bisogna comunque rilevare che, in effetti, Garibaldi non ci sapeva fare granché con la politica concreta, quella fatta di decisioni scomode ma convenienti, quella del saper simulare e mascherare i propri intenti, quella del saper leggere le intenzioni altrui. Tutti questi limiti si palesarono nella spedizione dei Mille. In primis, nei suoi rapporti con il re e con Cavour: il fatto che i due appoggiassero solo di nascosto la sua spedizione, prendendone invece le distanze in pubblico, non lo fecero dubitare delle loro intenzioni; e davvero fu convinto fino alla fine che Vittorio Emanuele – che seppe essere convincente – gli avrebbe permesso di liberare anche Roma e Venezia. D’altronde, il generale era stato chiaro da subito, e sempre coerente nelle sue azioni, suk suo intento di unire l’Italia in nome e per il re; invece, a Torino, il tono di alcuni discorsi di Cavour era drastico, si parlava di «ristabilire l’ordine a Napoli anche a costo di gettare tutti i garibaldini a mare». Ma anche alcune scelte che prese da dittatore non furono felici: ad esempio, la promessa ai contadini siciliani di dividere i demani comunali, la creazione di un sussidio di disoccupazione – l’anticamera del comunismo, per alcuni –, il suo circondarsi di personaggi ambigui, come don Liborio Romano, ex-ministro delle Due Sicilie e noto per essere molto vicino alla camorra.

Senza Garibaldi, comunque, l’Italia non si sarebbe fatta, o almeno non nei tempi e nei modi con cui l’unità è stata raggiunta. E, nella sua “ingenuità” (preferisco chiamarla buona fede), non credo immaginasse che a Torino il governo era diventato così ostile nei confronti suoi e dei suoi volontari, tanto da volerli, appunto, “gettare a mare”. L’epilogo della spedizione, e la consapevolezza di essere stato usato, furono, infatti, fonte di grande dolore per Garibaldi, e anche di una certa rabbia, che certo non si sforzò troppo di reprimere. Nella seduta parlamentare del 18 aprile 1861, una delle pochissime a cui partecipò, il generale, che era stato eletto al Parlamento, prese la parola, e rivolgendosi a Cavour, «colui che mi ha reso straniero in Italia», pronunciò un discorso:

«Dovendo parlare dell’armata meridionale, io dovrei anzi tutto narrare dei fatti ben gloriosi; i prodigi da essa operati furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di questo Ministero faceva sentire i suoi effetti malefici. Quando per l’amore della concordia, l’orrore di una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero […] Sì, una guerra fratricida!».

Le ultime battaglie e la morte

La spedizione dei Mille fu forse il momento più glorioso della vita di Garibaldi, quello che confermò il suo essere davvero l’«eroe dei due mondi». L’unificazione, tuttavia, dal suo punto di vista non era compiuta: il suo obiettivo era sempre stato quello di raggiungere e liberare Roma e Venezia, e si preparò per farlo. Nel 1862, alla testa di una nuova spedizione di volontari, dalla Sicilia sbarcò in Calabria e puntò su Roma, ma l’esercito italiano non glielo permise, lo fermò sull’Aspromonte il 29 agosto sparandogli addosso e poi lo arrestò. Anche in questo caso, segretamente aveva ricevuto rassicurazioni e un tacito appoggio del re – forse per poterlo poi punire più duramente una volta fermato –, ma Garibaldi questa volta fu più furbo, e conservò la corrispondenza privata: il 5 ottobre il re concedeva l’amnistia.

Le cose andarono diversamente nel 1866, in occasione della Terza guerra d’indipendenza, quando Garibaldi fu nuovamente reclutato dall’esercito – questa volta italiano – per combattere sul fronte orientale. Era ormai malato da tempo di artrite, ma ciò non gli impedì di condurre vittoriosamente il suo corpo di volontari quasi fino a Trento, dove lo raggiunse l’ordine di fermarsi. «Obbedisco», rispose, e si ritirò. Il risultato fu comunque quello atteso, perché dalla guerra l’Italia ottenne, finalmente, il Veneto. Mancava solo più Roma, per la cui liberazione Garibaldi si gettò nella sua ultima, grande impresa per la causa italiana: nell’ottobre del 1867, raccolto un contingente di volontari, sbarcò a Civitavecchia e puntò su Roma, ma fu fermato dalle truppe pontificie e dall’intervento francese a Mentana, il 3 novembre.

Gli ultimi anni della sua vita Garibaldi li passò a Caprera, dedicandosi all’amata vita dei campi, alla lettura, alla scrittura e alla pubblicazione delle sue opere, prima su tutte le sue Memorie. E nella sua isola perì, il 2 giugno 1882, per una malattia bronchiale contratta probabilmente in Sicilia poche settimane prima.

Il mito di Garibaldi

«Giuseppe Garibaldi, con Dante, Cristoforo Colombo, Leonardo Da Vinci, è uno dei pochi italiani conosciuti e ammirati in tutto il mondo, l’unico dei tempi moderni, il solo a essere amato, oltre che ammirato». Inizia così la biografia del grande generale scritta da Alfonso Scirocco (Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Laterza, 2001). Un’ammirazione che non è mai scemata, nemmeno oggi, e che ci permette di dire che veramente Garibaldi è un personaggio in cui tutti vorremmo riconoscere parte di noi stessi. La volontà di appropriarsi della sua eredità, però ha fatto sì che nel corso dei decenni si sia fatto un uso scorretto, interessato, fazioso delle sue idee e del suo carattere: tanto per dirne una, le camicie nere si dicevano eredi del movimentismo garibaldino e, ricordandone l’esperienza dittatoriale in Sicilia, lo presentavano come “profeta della dittatura” fascista.

Un’appropriazione infelice per un personaggio che, con i suoi gesti, i suoi pensieri, le sue battaglie, ha dimostrato essere tutto l’opposto: combattente per la libertà, filantropo, contrario a qualsiasi forma di oppressione. Motivi, questi, che permettono ancora oggi, a 140 anni dalla sua morte, di leggerne le gesta – e nel mio caso scriverle – ed emozionarsi.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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