«Col più profondo dolore mi tocca adempire l’ufficio di partecipare alla Camera l’infausto annunzio della morte dell’illustre conte di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri. […] Colla potenza del suo ingegno, colla forza della sua volontà, egli aveva resi, in circostanze così straordinarie, segnalati servigi all’Italia, e stava come in procinto di mettere la corona alle comuni speranze […]. Egli stesso, nelle ultime parole che uscirono dal suo labbro sul letto di morte, manifestava la ferma sua fede nell’avvenire d’Italia; si mostrava sicuro, che il principio di libertà, d’indipendenza, di unità, avrebbe conseguito un pieno trionfo. Staremo saldi in questa fede: concordi tra noi, stretti sinceramente intorno al trono del valoroso e lealissimo nostro Principe, noi potremo raggiungere la meta, alla quale, per sì mirabile tenacità di propositi, siamo ormai felicemente vicini»
Così Urbano Rattazzi, presidente della Camera dei deputati, annunciava al parlamento, il 6 giugno 1861, la morte di uno degli uomini che avevano letteralmente fatto l’Italia, probabilmente a causa di una malattia contratta da una puntura d’insetto nelle sue risaie del vercellese: Camillo Benso, conte di Cavour.
Biografia e storia di Camillo Benso Conte di Cavour: il periodo della giovinezza e della formazione
Cavour, formalmente, era francese, perché il 10 agosto 1810 Torino era capoluogo di una regione annessa all’impero di Napoleone.
Era il secondogenito di una ricchissima famiglia aristocratica vicina ai centri del potere: il padre, infatti, era un nobile possidente e affarista, vicino a Napoleone prima e ai Savoia poi, e ricoprì anche incarichi istituzionali, fu infatti sindaco di Torino nel 1833.
L’ambiente in cui Camillo crebbe era quello reazionario, conservatore e illiberale dell’aristocrazia torinese dell’epoca della Restaurazione, ostile alla prospettiva di introdurre riforme che aprissero il ristretto mondo del potere all’odiata borghesia; ancora peggio era lo “spettro” della democrazia, della repubblica.
Cavour quel mondo non lo rifiutava in blocco; anzi, quando fu necessario – gli piaceva giocare in borsa, e non sempre gli andava bene – poté fare affidamento sul patrimonio di famiglia.
E non rifiutava nemmeno i privilegi che gli derivavano dalla sua condizione: un’istruzione di prim’ordine, i viaggi di formazione, le raccomandazioni.
Ma in fatto di politica era diverso: egli apparteneva a quella generazione cresciuta negli anni del Romanticismo, della diffusione delle idee di nazione italiana e di liberazione d’Italia; inoltre, le sue letture giovanili e i viaggi in Francia e in Inghilterra (1835-40) gli fecero conoscere le idee di progresso e di civilizzazione, l’economia politica di Adam Smith, modi di vivere molto più liberi, partecipativi, aperti.
A Londra, ad esempio, rimase profondamente affascinato dalla modernità della Rivoluzione industriale, in particolare dalle ferrovie; a Parigi, invece, frequentò gli ambienti della monarchia costituzionale di Luigi Filippo, che divenne per lui un modello. Da qui derivano i capisaldi del suo pensiero politico: liberalismo e progresso; o meglio, liberalismo come effetto del progresso.
Ancora un aspetto è importante da trattare: lo status di secondogenito. Essere il figlio cadetto di una famiglia aristocratica nel Piemonte di primo Ottocento significava non avere diritto all’eredità familiare. Come poteva allora Camillo garantirsi un futuro? Il padre scelse per lui la carriera militare, ma a vent’anni decise di abbandonare questa strada.
Il padre, allora, lo avviò agli affari e gli affidò le tenute di famiglia da amministrare. Fu un’esperienza importantissima per Camillo perché ebbe la possibilità di mettere a frutto i suoi studi e l’esperienza in Inghilterra: grazie agli interventi modernizzanti sui macchinari e sulle tecniche, trasformò la tenuta di Leri (oggi Leri Cavour), nel vercellese, in un’azienda agricola all’avanguardia e altamente redditizia. Parallelamente, scriveva trattati di economia, sulle ferrovie, sul commercio, e fondò un giornale con l’amico Cesare Balbo, che significativamente fu chiamato «Il Risorgimento».
All’alba del 1848, Cavour era uno degli uomini più ricchi del regno, sicuramente l’economista più famoso, un imprenditore di successo, scrittore e giornalista. Poi, il 4 marzo 1848, Carlo Alberto promulgò lo Statuto albertino: a Camillo si aprirono le porte della politica.
Cavour politico: un liberale progressista decisivo per l’unità d’Italia
La scalata politica di Cavour fu rapidissima.
Avere una costituzione significava eleggere un parlamento e le prime elezioni si tennero il 27 aprile 1848; Cavour le perse, ma venne poi eletto in giugno, schierandosi tra le fila dei liberal-moderati.
Nell’ottobre 1850 divenne ministro dell’Agricoltura e del Commercio e nel 1851 delle Finanze, ma puntava più in alto, alla Presidenza del Consiglio, e si adoperò per costituire una nuova maggioranza parlamentare che lo sostenesse: fu il promotore del cosiddetto «connubio», cioè l’alleanza, così ironicamente soprannominata, tra il «centro-destra» (la parte progressista dei moderati) e il «centro-sinistra» (la parte moderata dei democratici), da cui scaturì una nuova maggioranza di centro che spingeva all’opposizione tutti gli estremismi – verso cui Camillo era profondamente ostile.
Nel novembre 1852, il re lo incaricò di formare un nuovo governo: in quattro anni e mezzo era passato da non essere eletto a Primo ministro.
Di qui in poi la parabola politica di Camillo coincide con quella del Regno di Sardegna, perché fino alla sua morte ne fu il protagonista assoluto.
Cavour poté mettere in pratica i capisaldi del suo pensiero, liberale e liberista: rafforzamento del ruolo del Parlamento nella tenuta istituzionale a discapito della discrezionalità del monarca, maggiori libertà individuali (stampa, associazioni), riforme economiche in senso liberoscambista (abolizione del dazio sul grano, stipula di trattati commerciali).
Per lui, infatti, era fondamentale l’idea che, se lasciato agire liberamente, lo sviluppo economico avrebbe generato progresso politico e civile.
La massima espressione di questo suo pensiero fu la grande politica di opere pubbliche che portarono all’ampliamento e al rafforzamento del porto di Genova e allo sviluppo di una rete ferroviaria all’avanguardia: entrambe erano pensate sia per promuovere la crescita del commercio del Regno, sia per inserire il Piemonte nel più ampio contesto delle grandi potenze europee, e in particolare avvicinarsi alla Francia.
Infine, la politica estera.
Si è già detto che Cavour apparteneva a quella generazione imbevuta dell’idea di Italia, e ci credeva fortemente nel fatto che un giorno l’Italia sarebbe diventata uno Stato unitario.
La politica di modernizzazione che intraprese aveva anche questo scopo, cioè rendere il Piemonte uno regno forte e attraente per gli altri Stati italiani. Inizialmente portò avanti la tradizionale politica espansionistica sabauda a discapito degli staterelli del Centro-Nord, ma l’aver allargato la maggioranza parlamentare alle frange più moderate della Sinistra gli permetteva di proporre un’istanza antiaustriaca, e quindi di pensare di allargarsi anche in Lombardia. Iniziò quindi a “tessere” la trama che in pochi anni lo portò a diventare il Primo ministro del Regno d’Italia.
Il «grande tessitore» o un abile tempista?
Un famoso storico, Denis Mack Smith, ha definito Cavour «il grande tessitore dell’Unità d’Italia», e in effetti le sue mosse in politica estera possono sembrare parte di una trama perfetta.
Ma questo giudizio si può dare a posterori.
Come si è chiesto Alessandro Barbero, nella sua conferenza sul Carattere degli italiani dedicata a Cavour, mentre prendeva quelle decisioni, Cavour ne aveva ben chiaro l’esito? Ovviamente no. Piuttosto, fu bravo ad aprirsi molte strade e a saper cogliere l’occasione quando si fosse presentata. È chiaro che a livello pratico non cambia nulla, ma questo punto di vista può cambiare il giudizio sulla persona e sulla sua azione politica, restituire un Cavour più umano e tempista e meno un “freddo calcolatore”.
Senza dimenticare, certo, che la trama che ha portato all’unificazione l’ha tessuta eccome.
Il passo iniziale fu decidere di partecipare alla guerra in Crimea (1855) al fianco delle due grandi potenze liberali, l’Inghilterra e la Francia, in modo da inserirsi dalla parte “giusta” dello scacchiere europeo e acquisire visibilità internazionale. Quando al Regno di Sardegna fu chiesto di partecipare alla guerra, Cavour accettò subito, sapendo bene che in caso di vittoria, alle trattative per la pace si sarebbe seduto al tavolo dei vincitori e avrebbe potuto sollevare la questione della sistemazione dell’Italia.
Cavour lo sapeva che avrebbero vinto? No, al massimo poteva immaginarlo o sperarlo, ma sapeva che l’occasione era ghiotta. La guerra fu vinta e alla Conferenza di Parigi (1856) presentò una situazione certo esagerata, ma funzionale al suo progetto: la presenza austriaca e il malgoverno del papa e dei Borboni erano fonte continua di tensioni rivoluzionarie, che rischiavano di esplodere e allargarsi in tutta Europa, come nel ’48, perciò era interesse comune dare una sistemazione definitiva all’Italia.
Il secondo passo fu stringere un’alleanza con la Francia di Napoleone III: gli accordi di Plombières prevedevano l’ingresso in guerra della Francia al fianco del Piemonte in caso di attacco dell’Austria (alleanza difensiva) e la sistemazione dell’Italia in tre regni; in cambio, il Piemonte avrebbe ceduto Nizza e la Savoia.
Cavour aveva altri piani in mente – sperava che, una volta costituiti, i tre regni avrebbero poi spinto per unirsi –, ma intanto la necessità immediata era liberarsi dell’Austria. Perciò agì, facendo di tutto per provocarne l’aggressione.
E la dichiarazione di guerra austriaca arrivò il 27 aprile 1859: iniziava la Seconda guerra d’indipendenza, il vero preludio all’unificazione dell’Italia. Anche in questo caso, Cavour si adeguò alla situazione, le sue azioni seguivano lo scorrere degli eventi, con tutti i rischi annessi: quando la battaglia di San Martino e Solferino fu vinta, e intanto i ducati padani insorti si pronunciarono per l’annessione, prospettò addirittura all’opinione pubblica di poter raggiungere Venezia; ma sul più bello Napoleone III firmò la pace con l’Austria, e all’Italia rimase solo la Lombardia. Cavour fu costretto a dimettersi, anche se solo per poco tempo.
Nell’ultimo capitolo dell’epopea unitaria Cavour fu oscurato dal personaggio forse più famoso del mondo in quel momento: Garibaldi. Non bisogna comunque sottovalutare il fatto che il Regno di Sardegna avrebbe potuto – anzi, avrebbe dovuto, visto che Garibaldi era un suo cittadino – fermarlo; Cavour però seppe stare a guardare il generale radunare volontari per partire alla volta della Sicilia, aspettando di capire cosa fosse meglio fare e pronto a intervenire se necessario.
E così fece: in un primo momento, in gran segreto, facilitò l’arrivo di volontari e armi in Sicilia, ma quando fu chiaro che Garibaldi non si sarebbe fermato se non a Roma – e forse addirittura a Venezia –, causando l’intervento della Francia di Napoleone III e il rischio di un’ulteriore restaurazione dell’ordine, si decise che era necessario fermarlo, e non gettare al vento le conquiste già ottenute.
Alla fine, Cavour, che da piccolo sognava di diventare primo ministro d’Italia, ci riuscì: il 18 aprile 1861 si aprì la prima seduta del Parlamento italiano, con lui seduto allo scranno del Primo ministro.