27 gennaio 1945. Oświęcim, Polonia.
L’inverno polacco è difficile da dimenticare. Il freddo entra fin nelle ossa. È invadente. Ed è difficile da scrollarsi di dosso.
Oświęcim dista una sessantina di chilometri da Cracovia. È una cittadina di campagna. Lì, il freddo è ancora più pressante. Tra novembre e marzo, a terra l’erba è quasi sempre ricoperta da un sottile strato bianco. Un misto di neve e ghiaccio. Anche con gli scarponi, è difficile tenere i piedi al caldo.
Nel campo di concentramento di Auschwitz non esistevano scarponi. E nemmeno scarpe. Ai prigionieri veniva dato un paio di zoccoli in legno. D’altronde, non era previsto che vi si fermassero a lungo.
Nei progetti di Hitler, il complesso di Auschwitz doveva essere una vera e propria “fabbrica della morte“. Per gli ebrei. Per i rom. Per gli omosessuali. Per i polacchi. Per i dissidenti. Per i nemici. E questo fu, per cinque, infiniti anni. Chi entrava dal torrione del campo principale, Auschwitz I, forse non lo sapeva, ma con ogni probabilità non vi sarebbe mai uscito.
Oggi, Auschwitz è un complesso museale a cielo aperto. I nazisti non sono riusciti a cancellarne le tracce, quando sono fuggiti. È stato dunque possibile adibirlo a tempio della memoria. Varcare il cancello, leggere la beffarda insegna “Arbeit macht Frei”, attraversare i viali che dividono i casermoni, entrare negli edifici fanno parte di un’esperienza comune. Terribile, certo, ma addomesticata. Che testimonia l’abominio, ma che ci ricorda anche che quell’abominio è passato.
Non appariva così, Auschwitz, a chi vi entrava dai grandi treni merci che affollavano l’ingresso. Migliaia di persone stipate in piccoli vagoni. Ogni viaggio. Trattate come bestie al macello. Giù dal treno, in fila. Uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Poi la selezione. Gli abili al lavoro da una parte. Perdevano la loro libertà e, nei progetti dei loro carnefici, anche la loro stessa umanità. Ma avevano salva la vita. Gli altri al campo di Auschwitz II, il vero e proprio campo di sterminio, meglio noto come Birkenau. Si calcola che solo lì vi abbiano perso la vita più di un milione di persone. Un milione e centomila.
Superata la selezione, iniziava il processo di disumanizzazione. Spogliati dei vestiti, degli oggetti di valore, dei capelli, dei denti d’oro. Dei peli pubici. I prigionieri entravano nei campi con un nome e un cognome e vi uscivano con un numero di matricola tatuato sull’avambraccio e con pochi, logori stracci addosso. Erano diventati dei “pezzi”, degli Stücke.
Poi l’inferno. Gli appelli notturni al gelo. Dodici ore di lavoro al giorno, in qualunque condizione. Le malattie. Gli abiti sporchi. Due, tre persone a condividere un letto fatto di paglia. Zuppe di verdure avariate e pane nero. Chi non moriva di fame o di malattie, moriva di lavoro. Chi mostrava segni di malattia, di debolezza, di stanchezza, veniva mandato direttamente nei forni crematori. E il terrore costante di essere uccisi per crudeltà. Solo perché si era ancora vivi. Tra questi c’era Primo Levi. Che ha raccontato cosa significasse essere un prigioniero di Auschwitz.
“Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. […] È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane”.
Il 27 gennaio 1945, alle 8 del mattino, le truppe sovietiche guidate dal comandante Kuročkin entravano nel complesso di Auschwitz. Per i pochi rimasti, era davvero la fine dell’incubo. Quello materiale, almeno.
Quando arrivarono i russi, i tedeschi non c’erano più. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio evacuarono il campo in direzione Germania, lasciando dietro di sé terra bruciata, dove riuscirono. Per coprire le tracce del crimine. Per provare a cancellare l’infamia commessa. Ma anche in quell’ultimo, vigliacco atto, mostrarono la loro natura feroce, obbligando 80.000 prigionieri all’ultima marcia della morte. Direzione Germania.
Tra loro, c’era una bambina milanese. Aveva quattordici anni. Era stata deportata ad Auschwitz sei mesi prima. Un intervallo lunghissimo, per i tempi di Auschwitz. Per lei, l’inferno non era ancora finito. Finì nel campo di Malchow, che faceva parte del complesso di Ravensbrück. Lei fu liberata solo tre mesi dopo, il 1° maggio 1945. Sempre dall’Armata Rossa.
Quella bambina era Liliana Segre.