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L’impresa dei Mille pt. I – In Sicilia

«Qui si fa l’Italia o si muore!»

Questa frase è incisa in un piccolo colonnato, posto su un’altura nel territorio del comune di Calatafimi Segesta, in provincia di Trapani, nel complesso museale di Pianto Romano. Proprio su quell’altura, secondo Giuseppe Cesare Abba – uno dei mille volontari partiti alla volta della Sicilia con Garibaldi –, il generale avrebbe rivolto quelle parole a Nino Bixio nei momenti più critici della battaglia di Calatafimi, il primo scontro dei garibaldini contro l’esercito regolare borbonico, spingendoli alla vittoria. Parole che probabilmente non furono davvero pronunciate, ma che in pochi mesi divennero realtà.

I preparativi

La spedizione in Sicilia di Garibaldi è strettamente connessa a ciò che era accaduto nei mesi precedenti nella Penisola: la Seconda guerra d’indipendenza si era chiusa con l’annessione al Piemonte del Lombardo-Veneto e, contemporaneamente, gli Stati dell’Italia centrale erano insorti, i sovrani erano stati cacciati e i governi provvisori avevano chiesto anch’essi l’annessione al Regno sabaudo. È in questo clima che tra i mazziniani divampò l’idea di far insorgere anche la Sicilia, da sempre ostile ai Borbone e desiderosa della perduta indipendenza, come primo focolaio di un’insurrezione che si sarebbe dovuta poi espandere anche al resto d’Italia. Particolarmente attivi nella realizzazione di questo progetto furono l’avvocato siciliano Francesco Crispi e il palermitano Rosolino Pilo, patrioti di lungo corso, il cui ruolo nel successo della spedizione garibaldina, lo vedremo tra poco, fu fondamentale.

Garibaldi, contattato proprio da Rosolino Pilo già nel marzo 1860, diede la sua disponibilità a capitanare una spedizione, ma a due condizioni: che fosse a supporto di una rivolta già in atto e, soprattutto, che l’esito finale fosse l’annessione al Regno di Sardegna. Sì, ma annettere quali territori? Proprio su questo punto si crearono i maggiori contrasti tra i protagonisti nei mesi successivi, perché Garibaldi si sarebbe fermato solo dopo aver “liberato” Roma e Venezia, mentre Cavour si sarebbe accontentato – e solo dopo aver constatato il successo dell’azione del generale – della sola Sicilia. Garibaldi si decise in aprile, quando fu chiaro che la Sicilia era pronta a insorgere: il 4 aprile, Pasquale Riso diede inizio alla rivolta della Gancia – subito soffocata –, e pochi giorni dopo anche Rosolino Pilo si recò nell’isola, per mantenere viva l’agitazione.

A Genova iniziarono i preparativi. Si cercavano armi, munizioni, viveri e, soprattutto, volontari. Il tutto sotto gli occhi di Cavour, che giocò d’azzardo sue due tavoli: da un lato, non poteva sconfessare Garibaldi di fronte all’opinione pubblica dopo essersi assunto il ruolo di campione dell’unità nazionale (d’altronde, Garibaldi stava andando in Sicilia per liberarla e consegnarla al re); dall’altro, doveva prendere le distanze da qualunque progetto che incrinasse l’ordine internazionale. Perciò, aspettando di vedere come si sarebbe evoluta la situazione, non si impegnò più di tanto per fermare l’arruolamento.

La data della partenza fu fissata per il 28 aprile. Le armi, seppur scadenti, erano state trovate, così come le munizioni, anche se poche. I volontari avevano risposto alla chiamata: c’erano studenti, professionisti, operai, veterani, patrioti, addirittura un prete; erano quasi tutti italiani, provenienti da ogni parte della penisola e di ogni età. Unico dato omogeneo è che erano tutti uomini. Anzi, quasi: travestita da uomo, partì con i Mille anche Rosalie Montmasson, la moglie di Crispi – ne ha raccontato la storia Maria Attanasio, nel bellissimo romanzo La ragazza di Marsiglia (Sellerio, 2018). Ma il 27 aprile dalla Sicilia arrivarono brutte notizie. Un telegramma cifrato, la cui chiave era conosciuta solo da Crispi, recitava «Completo insuccesso nella provincia e nella città di Palermo […] Non vi muovete». La partenza fu annullata, Garibaldi era pronto a tornare a Caprera. Poi, come un fulmine a ciel sereno, Crispi il 29 aprile disse di aver sbagliato a interpretare il messaggio: «insurrezione vinta nella città di Palermo», così era da leggere. Uno stratagemma rischioso, ma era quello che serviva: Garibaldi tornò sui suoi passi e pochi giorni dopo la spedizione era pronta a partire.

Nella notte tra il 5 e il 6 maggio, i garibaldini si impossessarono di due piroscafi, il Torino e il Lombardo, ormeggiati nel porto, e si recarono a Quarto di Genova, dove li aspettavano i volontari: i Mille – 1.162, per la precisione – erano pronti a salpare per la Sicilia. A Genova restarono Giacomo Medici e Agostino Bertani con il compito di raccogliere, inviare e coordinare gli aiuti che sarebbero poi arrivati nell’isola.

Da Marsala a Palermo

I Mille sbarcarono in Sicilia l’11 maggio, a Marsala. La notizia si diffuse immediatamente e l’entusiasmo tra i siciliani anche, che iniziarono ad accorrere e a unirsi alle fila del generale. Sulla loro strada, però, c’era l’esercito borbonico. Il primo scontro avvenne a Calatafimi, il 15 maggio: è la prima battaglia della spedizione in Sicilia. Uno scontro durissimo, con un bilancio disastroso (oltre 250 tra morti e feriti dal lato dei garibaldini; meno di 200 per i borbonici), ma infine vinto dalle camicie rosse e dai picciotti al loro fianco. L’obiettivo, ora, era Palermo.

Quello incontrato a Calatafimi era solo un contingente dell’esercito borbonico. A Palermo la situazione era diversa, c’era un presidio di oltre 20.000 uomini bene armati. Garibaldi, da parte sua, era convinto di avere l’appoggio della città e contava sull’aiuto di Rosolino Pilo, che nelle montagne aveva chiamato a raccolta squadre di rivoltosi. Il 21 maggio, però, arrivò una tragica notizia: Pilo era stato ucciso dai borbonici. Al suo posto, le squadre furono riunite e guidate da un altro patriota siciliano, Giovanni Corrao – che per questo suo rapporto con gli insorti venne accusato, negli anni immediatamente successivi, di essere il “capo della mafia”.

Con un abile diversivo, il 27 maggio i garibaldini entrarono a Palermo e gli abitanti insorsero: per tre giorni le strade furono riempite da barricate, palermitani e camicie rosse affianco a combattere con ogni arma l’esercito, strada per strada, dentro i palazzi; dalle montagne circostanti calarono nella città le squadre di Corrao. La battaglia, durata tre giorni, fu tremenda, ma alla fine furono i borbonici a fare la prima mossa: il 30 maggio chiesero l’armistizio. La città, d’altronde, traboccante d’odio per gli “invasori” napoletani, aveva dimostrato di stare dalla parte di Garibaldi. Così, agli inizi di giugno, l’esercito abbandonò la città e la lasciò al generale che – dopo aver già assunto la dittatura a Salemi, il 13 maggio, «in nome di Vittorio Emanuele» – proclamò la decadenza della monarchia borbonica in Sicilia e formò un governo provvisorio.

La dittatura: una gestione controversa

Assumere la dittatura, seppur in nome di Vittorio Emanuele, significava per Garibaldi esercitare i pieni poteri. Fu proprio su questo punto che quel tacito supporto alla spedizione che proveniva dal governo piemontese s’incrinò e, allo stesso tempo, Garibaldi si alienò le simpatie della popolazione.

Partiamo da questo secondo punto. Fin dallo sbarco, l’entusiasmo nei confronti del generale e del suo progetto di liberare l’isola dagli odiati Borbone era stato enorme, e abbiamo visto che già dai primissimi giorni gli insorti si unirono ai garibaldini. I provvedimenti presi da Garibaldi, una volta assunta la dittatura, andarono però a toccare un altro nervo scoperto, alimentando un’aspettativa mai sopita: la proprietà della terra. Il Regno delle Due Sicilie, infatti, fu quello in cui la feudalità rimase in vita più a lungo, formalmente fino al 1812, ma gravi ripercussioni si manifestavano ancora nel 1860. I primi provvedimenti di Garibaldi dittatore cercarono di accontentare soprattutto i contadini, sperando di averne un ritorno in termini di partecipazione all’esercito: abolizione della tassa sul macinato e dei dazi sui cereali e, soprattutto, una quota dei demani comunali per chi avesse combattuto contro i Borbone. Questa promessa fu però intesa diversamente, cioè come impegno a suddividere le terre comunali, e tanto infiammò il popolo quanto creò delusione quando fu chiaro che questa prospettiva non si sarebbe avverata. Ciò diede vita a violente ribellioni: la più famosa è certamente quella di Bronte, avvenuta il 3 agosto e repressa nel sangue da Nino Bixio. Altro motivo di distacco dalla causa garibaldina fu l’introduzione della coscrizione obbligatoria, con l’obiettivo di formare un grande esercito per la liberazione dell’Italia.

L’atteggiamento conciliante di Garibaldi finì col disperdere la simpatia verso il generale tra le classi dirigenti isolane, le quali, spaventate dalla situazione, si avvicinarono sempre più all’idea dell’annessione al Piemonte come unica garanzia di tutela dell’ordine sociale. Non che Garibaldi non volesse, alla fine dell’“avventura”, raggiungere questo stesso obiettivo – in questo senso, infatti, va letta l’estensione della legge elettorale piemontese in Sicilia, decretata in giugno – ma nei suoi progetti ciò sarebbe dovuto accadere solo una volta conquistate Roma e Venezia. Cavour, invece, che inizialmente aveva favorito l’afflusso di armi e di volontari, spaventato ora da una “deriva repubblicana” e da un possibile intervento di Napoleone III – che, ricordiamolo, era garante dell’integrità dello Stato della Chiesa e aveva interesse a mantenere lo status quo nella penisola – spingeva per l’annessione immediata della Sicilia tramite plebisciti. Passi ulteriori in questo senso furono compiuti tra luglio e agosto, quando Agostino Depretis, uomo della Sinistra ma favorevole all’immediata annessione, fu nominato prodittatore della Sicilia e, da questa posizione, estese alla Sicilia lo Statuto albertino e altre leggi piemontesi: insomma, l’annessione era praticamente cosa fatta, mancava solo la sanzione ufficiale del plebiscito.

L’ultima resistenza borbonica: la battaglia di Milazzo

Garibaldi, però, come abbiamo visto, aveva altri progetti. Di fronte al rapido successo dell’azione garibaldina, l’opinione pubblica piemontese – e anche quella straniera – si era mobilitata in favore del generale: si costituirono associazioni e comitati di raccolta fondi con cui furono comprate armi, munizioni, indumenti; gli scaricatori di Liverpool fecero turni straordinari gratis per fabbricare e spedire munizioni; soprattutto, partirono molti altri volontari, circa 20.000, nelle settimane successive alla presa di Palermo. Con questi uomini e i rifornimenti, ma senza più le squadre dei picciotti, sciolte a metà giugno, Garibaldi poté puntare al Continente.

L’esercito borbonico, però, aveva ancora un concentramento di uomini nella Sicilia orientale, sullo Stretto, dispiegato tra Messina e Milazzo. È proprio qui che, tra il 17 e il 20 luglio, una colonna dell’esercito garibaldino comandata da Giacomo Medici, e poi raggiunta da circa 3.000 volontari, si scontrò con gli avversari: prima a Barcellona, poi ad Archi e, infine, nella battaglia decisiva di Milazzo. Le due forze si equivalevano numericamente – circa 5.000 uomini per parte –, ma l’inerzia era tutta dalla parte dei garibaldini, che erano disposti a tutto per sconfiggere il nemico, mentre a Napoli si preferì dare l’ordine di abbandonare l’isola e difendere il Mezzogiorno invece di spostare il resto del contingente, fermo a Messina, nel vivo della battaglia.

Dopo un durissimo scontro, nel caldo torrido del luglio siciliano, i borbonici capitolarono. Il bilancio fu tragico: 800 uomini tra morti e feriti per le camicie rosse. Molti meno per i napoletani, 150, che però persero per sempre l’isola. Il 26 luglio l’esercito regolare abbandonava definitivamente la Sicilia e il 27 luglio Garibaldi entrava a Messina, dove lo aspettava una popolazione in festa. La Sicilia era finalmente libera.

 

Testo fondamentale da cui ho tratto le informazioni contenute in questo articolo è di Alfonso Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo (Laterza, 2001).

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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