5 milioni e 355 mila voti, il 19,07% delle preferenze, cioè sotto la “soglia psicologica” del 20%. Sono questi i numeri della Caporetto del Partito Democratico a questa tornata elettorale. Un risultato più che deludente, che certifica l’ulteriore calo di voti rispetto alle politiche del 2018 – non ci si lasci ingannare dalla percentuale, visto l’astensionismo record – e che approfondisce la crisi senza fine del partito, iniziata nel 2016 e da allora sempre e solo peggiorata, e più in generale della sinistra italiana.
Una crisi che non è però imputabile esclusivamente al segretario del Pd, Enrico Letta. Lui, da parte sua, ha certo commesso errori in campagna elettorale, ma ha preso in eredità un partito già agonizzante, di cui il vecchio segretario Nicola Zingaretti “si vergognava”, come detto da lui stesso al momento delle dimissioni, perché “parla di poltrone”. Allora, il problema più grosso del Partito Democratico, oggi, è proprio questo: la sua identità.
Gli errori in campagna elettorale
Certo, gli effetti più immediati della pesante sconfitta del Partito Democratico sono da ricercare nella breve e mal preparata campagna elettorale, e più in generale nel carattere troppo soft del segretario Letta. Purtroppo, è un dato di fatto che chi ha raggiunto i migliori risultati elettorali, soprattutto dal 2013, è sempre stato colui che ha “strillato” di più nei comizi: Renzi, Grillo, Salvini, ora Meloni.
Un dato che deve far riflettere, perché l’ampio spostamento di voti da una forza all’altra in un arco relativamente breve di tempo dimostra come nemmeno gli elettori siano mai contenti delle scelte che prendono essi stessi, e che certifica l’incapacità delle forze politiche di mantenere le promesse elargite in campagna elettorale – consapevoli di non poterle mettere in pratica.
Promesse gridate ai quattro venti, che hanno ormai assuefatto l’elettorato ai toni grossi. Per questo, la campagna di Letta, che leader carismatico non lo è e non lo è mai stato, non ha fatto breccia: i suoi toni pacati, il rifiuto di abbassarsi al livello dei suoi avversari, e cioè a fare una campagna “emotiva” e non ragionata, logica, se nella vita quotidiana è da considerare assolutamente un pro, purtroppo in politica è uno svantaggio, pagato a carissimo prezzo.
Pesano, ovviamente, anche le scelte del segretario Pd. Su tutte il non volersi alleare all’altro partito dimostratosi progressista, il Movimento 5 Stelle, in nome di una condanna senza possibilità di redenzione per aver fatto cadere il governo Draghi. Ma anche l’aver incentrato la campagna sull’“allarme democratico”, che non spaventa abbastanza gli elettori (o forse non li spaventa proprio?), piuttosto che su idee concrete, su battaglie che scaldino il cuore delle persone e che le coinvolgano attivamente nella vita pubblica.
Perché, diciamolo francamente, il programma del Partito Democratico è estremamente aleatori, utopico, farcito di promesse di impegno sui temi dell’ambientalismo e del diritto civile – tra l’altro, in alcuni casi, ridimensionate rispetto a posizioni che in precedenza si erano definite irremovibili, come il passo indietro dallo ius soli allo ius scholae – che però stridono con la realtà dei fatti. Perché, pensandoci bene su, il Pd è al governo quasi ininterrottamente da undici anni, e anche quando ha avuto i “numeri” per raggiungerli, questi traguardi non sono stati conseguiti, fagocitati sempre da qualcosa di più importante.
Un problema d’identità
Queste promesse – lo ius scholae, la legge sul fine vita, l’ampio programma di intervento nel mondo del lavoro, le tematiche ambientaliste – cozzano soprattutto con l’immagine che il Partito Democratico ha dato di sé – il grande partito progressista e tutore della democrazia della politica italiana – agli elettori, delusi ampiamente da una formazione che nella realtà ha dimenticato per strada la vision che avrebbe dovuto guidare la sua esperienza di governo.
Sì, perché in questi anni il Partito Democratico è sempre stato troppo impegnato in lotte intestine tra correnti – che hanno portato solo a inutili scissioni – per rendersi conto di stare perdendo le fondamenta su cui ogni partito politico si costruisce: gli elettori. Che, per parte loro, hanno dimostrato di avere ancora una gran voglia di sinistra, o almeno di un’alternativa alla destra, ma che non trovano un progetto in cui identificarsi e, soprattutto, un simbolo su cui mettere una croce nella cabina elettorale.
Quella del Pd, dunque, è una vera e propria crisi di identità politica. Un partito che vorrebbe essere di sinistra, come non manca di mettere in mostra nel suo programma, ma che nei fatti non ci riesce. Un partito che vorrebbe farsi portavoce dei lavoratori, delle minoranze nella società, della galassia progressista e ambientalista, ma che, quando avrebbe potuto rappresentarle, queste categorie le ha messe nel dimenticatoio, soprattutto i lavoratori italiani, che in Europa sono gli unici ad aver visto diminuire i propri salari negli ultimi 20 anni – e in questo lasso di tempo sono stati 8 i governi guidati dal Pd o con il suo appoggio. Oppure, si è limitato al “compitino”: denunciare le violenze di genere ma senza mettere seriamente mano a leggi per limitarle; promuovere l’accoglienza e l’integrazione dei migranti e non promulgare leggi che superino lo ius sanguinis e che facilitino l’ottenimento della cittadinanza per gli stranieri, in particolare per le seconde generazioni.
Anche in questo caso, diciamolo chiaramente: il Partito Democratico ha dilapidato il proprio capitale di voti perché è stato più impegnato a conservare la propria posizione in Parlamento, a infilarsi in ogni modo possibile nello schieramento di governo, ad autoriprodurre il proprio “potere”. Un potere che però, in questo caso, ha i piedi di fango, perché in politica la legittimazione arriva dal basso, dal voto popolare, che ha dato la sua sentenza.
Quale futuro?
Già da lunedì 26 settembre, la strada futura è stata segnata dal segretario del Pd, Enrico Letta: un congresso in primavera in cui si decideranno le sorti del partito. E nel mentre? In politica sei mesi sono un’eternità, ma la classe dirigente di sinistra ha davanti a sé una grande occasione: la possibilità di ripensare profondamente a quale identità dare alla futura formazione (si manterranno il nome e il logo del partito?) che prenderà in eredità quei 5 milioni di voti e che dovrà provare a dare voce a quel 10% di astenuti che ha scelto, o è stato costretto, a tacere. E avrà modo di farlo da una posizione privilegiata, quella dell’opposizione a un governo che si definisce di centro-destra, ma che è più di “destra-centro”, o meglio di “destra-destra”.
In che modo, è tutto da scoprire. Si sono già fatti i nomi dei possibili successori di Letta, che ha annunciato di non ricandidarsi alla segreteria. I due più gettonati provengono entrambi dall’Emilia-Romagna: Stefano Bonaccini ed Elly Schlein. Ma il problema del Pd non sta nel nome del segretario o del partito, nel simbolo o nelle alleanze.
È bene che la sinistra sfrutti nel migliore dei modi questo periodo – di quanto tempo si parli non è dato saperlo ora – ritrovi sé stessa, la sua anima progressista e democratica, egualitaria e a difesa dei più deboli ed emarginati. Perché il grande dibattito che si è sviluppato in questi giorni sui giornali sulle cause del declino del Partito Democratico e sulle sue prospettive future dimostra che, in fondo, una buona fetta di Paese si identifica, e che ha voglia di identificarsi, di nuovo e ancora, nei valori, nelle battaglie e nei programmi della sinistra.