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Le origini della mafia in Sicilia. L’ascesa dei nuovi «ceti intermediari»

La quarta puntata sulle origini della mafia in Sicilia è dedicata alla struttura sociale della Sicilia occidentale nell'Ottocento e alla sua evoluzione dopo l'eversione della feudalità. Perché è qui che bisogna guardare per comprendere la nascita delle prime organizzazioni mafiose.

Il motivo per cui nella Sicilia centro-occidentale di seconda metà dell’Ottocento ha potuto svilupparsi e radicarsi il fenomeno mafioso affonda le sue radici nel non lontano passato feudale dell’isola, nella peculiare gestione della proprietà da parte dei baroni della Conca d’oro e nelle sue ricadute sulla stratificazione sociale nel momento in cui furono estese alla Sicilia le leggi eversive della feudalità.

La stratificazione sociale, ad inizio Ottocento, combaciava sostanzialmente con le modalità di accesso alla proprietà della terra: ricchezza, prestigio, potere, amministrazione della giustizia e gestione dell’ordine pubblico erano i privilegi detenuti formalmente dal barone, il proprietario del feudo e vertice della piramide sociale, sui terreni sotto la sua giurisdizione.

Tuttavia, la prassi dei proprietari della Conca d’oro era quella di cedere il terreno a gabella, cioè in affitto dietro il pagamento di una quota prestabilita[1], delegare la conduzione del fondo al gabellotto e andare a vivere nel capoluogo, Palermo, dove potevano dedicarsi ad altre attività o ‘godersi la vita’; nel resto della Sicilia, e nel Mezzogiorno in generale, prevaleva invece la conduzione diretta dei possedimenti con braccianti[2]. Ma cedere la terra significava anche, in questa società, delegare tutte quelle funzioni e i privilegi economici e sociali che il proprietario assommava su di sé: organizzazione della produzione, gestione delle risorse economiche, percezione di una rendita, amministrazione della giustizia.

I gabellotti si sostituivano così ai proprietari nella conduzione diretta della proprietà, frazionandola in appezzamenti che venivano poi affittati a contadini attraverso contratti angarici ed esercitando l’usura sui prestiti ad essi concessi; imponevano l’ordine attraverso campieri o guardie private; garantivano l’approvvigionamento delle risorse utilizzando altri fornitori – molto importanti, ad esempio, erano i fontanieri, i fornitori di acqua. Assieme a quella del gabellotto, emersero anche tutta una serie di figure sociali aperte alla competizione che si collocavano in una posizione intermedia tra proprietari e contadini: campieri, guardiani, fontanieri, e tutti quegli intermediari legati al mondo della commercializzazione.

La società della Sicilia centro-occidentale era quindi caratterizzata da un notevole dinamismo sociale ed era sostanzialmente, ma non formalmente, estranea dalla rigida stratificazione e alla trasmissione ereditaria del patrimonio e del potere tipiche delle società feudali. Tuttavia, la prassi entrava in conflitto con la definizione formale del potere. Nonostante fossero uno strumento indispensabile per le classi dominanti, gabellotti, campieri, guardiani, sensali, commercianti erano esclusi, sia culturalmente che legalmente, dalla possibilità di vedere riconosciuti la propria ascesa sociale e uno status che nei fatti avevano conquistato. Si delineò una situazione ambigua: l’assenteismo dei grandi proprietari permise lo sviluppo di «ceti intermedi» che si collocavano su «snodi cruciali delle relazioni di potere ed economiche» perché detenevano «nelle proprie mani gli strumenti del controllo sociale, della regolamentazione del mercato del lavoro, dei cicli della produzione e della commercializzazione dei prodotti». Essi disponevano dei mezzi per poter raggiungere «mete proibite» all’interno di una società in cui l’opzione dell’ascesa sociale legittima non esisteva: l’unico modo per risolvere questa contraddizione era il ricorso alla «violenza e all’usurpazione, nonché alla specializzazione in attività di mediazione che si fondavano sulla capacità di esercitare la violenza»[3].

Sugli effetti dell’abolizione della feudalità, sancita dalla Costituzione del 1812 e confermata con la formazione del Regno delle Due Sicilie poi (1816), ha scritto Leopoldo Franchetti che,

cambiato coll’abolizione della feudalità il diritto positivo, cessò del tutto la conformità di questo colle condizioni di fatto e col senso giuridico delle popolazioni. Da un lato il diritto positivo non riconobbe più né in teoria né in pratica prepotenze o violenze di nessun genere, e le considerò tutte indistintamente, come delittuose […] D’altra parte, le condizioni furono bensì modificate dal mutarsi del diritto positivo, fu bensì dato alla società un carattere più democratico col lasciare aperta la via ad ognuno che ne fosse capace, di usare delle forze in essa esistenti. Ma la forza colla quale si reggeva la società, continuando ad essere la prepotenza privata, ne risultò che, dove questa assumeva forma di violenza, la riforma avesse per effetto solamente di aprir la via ad un maggior numero di persone ad usare di questa.[4]

Abolire i vincoli feudali significò aprire le porte al mercato fondiario ed eliminare le strutture giuridiche feudali, dare un nuovo assetto amministrativo al territorio e, soprattutto, rendere illecita qualsiasi forma di violenza privata; significò poter accedere alla risorsa economica primaria, entrare di diritto nella competizione per emergere economicamente e socialmente, vedere confermato istituzionalmente il proprio status e il proprio peso all’interno della società entrando nelle fila della nascente borghesia proprietaria; ma significò anche frazionare ulteriormente i terreni, aumentare il numero dei possidenti, ognuno con una propria ‘forza militare’ privata pronta ad essere utilizzata nel caso di minacce alla proprietà. E, come sottolinea Franchetti, continuava ad essere la ‘prepotenza privata’, la ‘violenza’ a regolare i rapporti, perché il regno Borbonico fu incapace di esprimere quelle «riforme legislative e amministrative che avrebbero dovuto trasferire l’autorità di esercitare la violenza legittima nelle mani dello Stato»[5], lasciando di fatto la gestione dell’ordine pubblico ancora nelle mani delle ‘istituzioni’ locali, quei baroni e quei gabellotti, alcuni dei quali divenuti possidenti, che erano in grado concretamente di farlo rispettare.

Lo Stato unitario, nel 1861, adottando la strategia della delegittimazione politica e delle leggi speciali per la pubblica sicurezza, non fece altro che scavare un solco ancora più profondo tra società civile siciliana e istituzioni.

[1] R. Cancila, Merum et mixtum imperium nella Sicilia feudale, in «Mediterranea. Ricerche storiche», n. 14, 2008, pp. 469-504.

[2] Per approfondire, R. Catanzaro, Imprenditori della violenza e mediatori sociali. Un’ipotesi di interpretazione della mafia, in «Polis», I, 2, agosto 1987, pp. 261-282 e S. Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza: la vicenda degli agrumi siciliani, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 1, 1987, pp. 81-112.

[3] Catanzaro, Imprenditori della violenza cit., pp. 267-69.

[4] L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in Inchiesta in Sicilia, Vallecchi, Firenze 1974, vol. I, p. 111-115.

[5] Catanzaro, Imprenditori della violenza cit., p. 269.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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