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Ascesa e declino di Matteo Renzi

Nel dicembre 2012 il Popolo della Libertà, il partito di Berlusconi, tolse la fiducia al governo Monti in vista delle imminenti elezioni politiche del febbraio 2013. In tale contesto la coalizione del centro-sinistra, guidata dal segretario del Partito Democratico Bersani, ottenne una vittoria di Pirro con poco meno del 30% e una maggioranza non determinante al Senato; la coalizione del centro-destra si attestò a un soffio dalla sinistra ottenendo poco più del 29% e disponendo di una larga maggioranza alla Camera; il Movimento 5 Stelle da solo riportò il 25% mentre Scelta Civica, il movimento del ex-premier Monti che aveva formato come alternativa dell’area centrista moderata, si fermò al 8%.

Il nuovo Parlamento, difficilmente governabile e diviso in tre fazioni – tra cui il M5S che rifiutava ogni alleanza – elesse per la seconda volta Giorgio Napolitano come Presidente delle Repubblica. Pochi giorni dopo la sua rielezione, Napolitano incaricò Enrico Letta, vicesegretario del Pd, di formare un nuovo governo di larga maggioranza tra tecnici, centro-destra e centro-sinistra. Il nuovo governò si trovò a governare tra gli effetti della crisi economico-sociale della Grande Recessioni e i vincoli per il rispetto delle politiche di austerità imposti dall’Unione Europea. Questo governo fu costantemente vittima di una forte instabilità a causa della necessità di portare a termine importanti riforme istituzionali e subì un’enorme pressione sia dal Parlamento, sia dagli alleati del centro-destra – divisi ora tra il Nuovo Centro-Destra di Alfano e Forza Italia di Berlusconi –, sia, soprattutto, dall’interno del Pd stesso, dove si stava affermando la leadership del sindaco di Firenze, Matteo Renzi.

Renzi Primo ministro

Matteo Renzi può essere considerato l’archetipo del politico di centro-sinistra: sebbene abbia origini politiche dalla social-democrazia europea, nel corso del XXI secolo il suo partito si è progressivamente avvicinato al liberalismo rimanendo comunque fedele al pensiero democratico. Questa virata potremmo definirla una svolta della politica italiana verso la politica liberal americana, grazie all’influenza che la presidenza di Obama suscitò nel Pd soprattutto dopo l’avvento di Renzi.

Matteo Renzi, nato a Firenze nel 1975, dal 2004 al 2009 fu presidente della Provincia di Firenze e sindaco del capoluogo toscano dal 2009 al dicembre 2013, quando vinse le elezioni primarie del Partito Democratico. Una volta alla testa del suo partito, nel febbraio 2014, sfiduciò Letta e formò un nuovo governo. Nelle elezioni europee del maggio 2014 il Pd renziano ottenne il 40% dei voti e, vittorioso di questo risultato, intraprese la strada delle riforme istituzionali.

Tutto ciò porto al Governo Renzi critiche dall’opposizione e dalla stessa minoranza del suo partito che aveva perso le precedenti primarie. Questo fronte anti-renziano vide bollare il premier come attuatore di un colpo di stato dal sapore “fascista” sia da parte dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), sia da frange della destra italiana, come Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e la Lega. Nonostante queste opposizioni trasversali, il governo Renzi cadde solo in seguito a un azzardo del Presidente del Consiglio, che indisse un referendum costituzionale nel 2016 e vi legò il proprio destino politico.

Renzi il riformatore

Il governo Renzi si caratterizzò per uno spiccato riformismo, in particolare in materia di lavoro: ricordiamo il Jobs Act, che rese più facili i licenziamenti, la “buona scuola”, che aumentò l’autonomia dei dirigenti scolastici, concedendogli dei poteri decisionali di tipo aziendalistico e fece uscire dal precariato 100 mila inseganti – ma, anche, creò l’alternanza scuola lavoro per gli studenti, che recentemente ha mostrato tutti i suoi aspetti più drammatici –; il bonus 80 euro, cioè uno sconto fiscale mensile, sui redditi più bassi dei lavoratori dipendenti. Più temerario fu il tentativo di portare a compimento quelle riforme istituzionali che erano attese sin dall’inizio della Seconda Repubblica.

La prima era una nuova legge elettorale che sostituisse il Procellum (la legge Calderoli), dichiarata parzialmente incostituzionale nel 2013. Questa nuova legge fu varata nel maggio 2015 e prese il nome di Italicum: essa prevedeva un sistema proporzionale innestato da un premio di maggioranza per il partito che avesse vinto con più del 40% dei voti; eventualmente, se al primo turno non si fosse affermato nessun vincitore, si sarebbe svolto un ballottaggio tra i primi due partiti.

La seconda, più ardita, prevedeva una riforma costituzionale che avrebbe trasformato il Senato, riducendone le competenze, in una camera che avrebbe rappresentato i poteri locali, Regioni e Comuni. Il 4 dicembre 2016 gli italiani si espressero: il 40,1% votò per la riforma, il 59,9% la bocciò. Questo risultato segnò la fine della politica delle riforme e, in generale, la fine della presidenza Renzi. Principale causa di questa sconfitta fu il fatto impostare il referendum in modo estremamente personale sulla figura del premier. Preso atto della netta sconfitta Renzi si dimise, restando senatore, e fu sostituito dal suo Ministro degli Esteri Gentiloni. In seguito, ritornato alla guida del PD e avendo perso le elezioni del 2018, formò un nuovo partito, Italia Viva.

Da questo quadro quello che si può dire è che l’eredità del governo Renzi fu quella di mischiare ulteriormente le acque delle forze politiche tradizionali e le idee di un elettorato sempre più lontano e deluso dai partiti tradizionali, sempre più prossimo a essere vittima del canto da sirena del populismo.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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