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Perché l’immigrazione è una risorsa e non un’emergenza

Il tema dell'immigrazione è tornato al centro del dibattito pubblico negli ultimi giorni, da quando il governo ha iniziato la sua nuova (negli attori protagonisti), vecchia (politicamente) crociata contro l'immigrazione "clandestina". Ecco tre ragionamenti che spiegano perché le migrazioni sono una risorsa e renderle "irregolari" uno svantaggio.

La guerra in Ucraina, l’emergenza energetica, le elezioni hanno fatto passare in secondo piano la drammatica situazione di cui, da più di un decennio, è teatro il Mediterraneo: migliaia di persone, di ogni età e genere, che ogni giorno si imbarcano su mezzi fatiscenti, in fuga da guerre, da persecuzioni, da regimi dittatoriali, dalla povertà. Una tragedia umanitaria che inizia nel Paese di origine e continua in quelli di transito, dove spesso i migranti aspettano mesi o anni e subiscono abusi e torture. E che rischia di non finire nemmeno a destinazione tra rifiuti di sbarco, complicazioni burocratiche, indirizzi politici nazionali e l’ostilità nei loro confronti da parte delle popolazioni dei Paesi riceventi.

Ma le quattro navi, cariche di migranti salvati in mare, che aspettano di sbarcare i propri passeggeri in Sicilia hanno riportato violentemente i riflettori sul Mare Nostrum, sul diritto internazionale e su quello umanitario. Dal punto di vista strettamente legale la questione è spinosa. Tutto ruota attorno a due elementi: la “definizione” di queste persone, cioè se riconoscerli come rifugiati (e in quanto tali l’Italia sarebbe obbligata ad accoglierli) o come “semplici” migranti (quindi, prima che sia riconosciuto loro il diritto d’asilo, devono essere identificati e devono presentare una richiesta formale di asilo, che dovrà poi essere accolta), e la legittimità delle operazioni di soccorso delle ONG, che il ministro dell’Interno italiano Piantedosi ha definito nei giorni scorsi non “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere di contrasto all’immigrazione illegale”.

Alla fine, una soluzione è stata trovata, seppur precaria e non definitiva, cioè lo sbarco selettivo dei soli migranti in situazioni di fragilità e critiche. Decisione che ha sollevato, a ragione, molte critiche, da quelle più strettamente giuridiche a quelle politiche e morali, soprattutto perché è diretta conseguenza di un’ideologia e di una narrazione faziosa che le destre italiane hanno costruito negli anni: la migrazione come fenomeno perennemente emergenziale, come problema di sicurezza nazionale e motivo di sconvolgimento dell’ordine sociale – mi riferisco alla più volte evocata “sostituzione etnica” e alla competizione in ambito lavorativo. Uno scenario che, tuttavia, non corrisponde alla realtà, e che non permette all’Italia di cogliere le grandi opportunità insite nel fenomeno migratorio.

I vantaggi nella sfera economica

Iniziamo questa riflessione sui vantaggi di una politica indirizzata all’accoglienza e all’integrazione indagando la sfera più concreta, materiale: quella dell’economia. Fermo restando che il diritto d’asilo è uno dei diritti internazionali fondamentali, ma che molto spesso motivazioni di ordine “politico”, se così si possono chiamare (persecuzioni, guerre, dittature, ecc.) si mescolano a quelle di ordine “economico”, facilitare l’ottenimento della cittadinanza italiana e l’inserimento nel mondo del lavoro degli stranieri porterebbe immediati benefici sui conti pubblici.

Avere una politica sulla cittadinanza più aperta ridurrebbe l’immigrazione irregolare (che, ricordiamo, è uno status giuridico, e quindi sempre passibile di cambiamento) e renderebbe l’Italia un Paese più attraente – è cosa nota, infatti, che sia vista dalla maggior parte dei migranti come un Paese di transito e non di destinazione, e che la loro permanenza sul territorio nazionale sia dovuta alla burocrazia – per persone che, pur fuggendo da situazioni critiche nel loro Paese d’origine, portano con sé un bagaglio di conoscenze, teoriche e pratiche, di esperienza, di risorse.

Insomma, che molte delle persone che raggiungono l’Italia nella rotta del Mediterraneo abbiano ai piedi un paio di scarpe di marca o uno smartphone non solo non dovrebbe essere un motivo di criminalizzazione, ma non dovrebbe proprio essere una notizia: credo sia profondamente razzista pensare che queste persone debbano presentarsi necessariamente come dei poveracci, dei disperati, per essere “credibili”, ancor di più se pensiamo alla forzata penetrazione del capitalismo negli Stati del cosiddetto Terzo Mondo, a lungo concepiti come “mercati vergini” dai Paesi occidentali. Scappare dalla persecuzione, dalla guerra, dalle dittature, inoltre, non è sinonimo di povertà: non c’è un motivo per cui un laureato, o un lavoratore anche benestante, non debba andarsene (o voglia farlo) dal proprio Stato se non questo non è un luogo sicuro e/o un posto in cui realizzare i propri progetti di vita.

Rendere attraente l’Italia per forza lavoro proveniente dall’estero, facilitare il suo inserimento nella cittadinanza e nel mondo del lavoro regolare creerebbe nuovi introiti per l’erario e aiuterebbe a contrastare l’evasione fiscale, lo sfruttamento, il lavoro nero: in poche parole, la criminalità e le mafie, che sfruttano il disagio sociale, l’emarginazione, la povertà per accrescere i propri introiti a danno dello Stato. E non è vero che gli stranieri (caso strano, solo quelli africani e sbarcati in Italia attraverso la rotta mediterranea) “rubano” il lavoro ai giovani italiani, se pensiamo che in Italia circa un giovane su quattro non studia né cerca lavoro (sono i cosiddetti neet).

Ha più senso, invece, un altro ragionamento: il fatto che i migranti accettino lavori che assomigliano più alla schiavitù, in particolare nel settore dell’agricoltura, indebolisce tutta la categoria dei lavoratori, perché è difficile ottenere benefici dalla contrattazione collettiva finché ci sarà un esercito di bisognosi che accetta condizioni di lavoro disumane. Ma la soluzione è più semplice di quella prospettata, cioè “chiudere i porti”: basterebbe rendere più semplice l’ottenimento della cittadinanza, cosa che porterebbe con sé la possibilità di trovare lavori con regolare contratto e, dunque, poter aprire la partita sindacale nei settori in cui oggi le condizioni di lavoro sono peggiori.

Problemi di ordine pubblico?

L’argomento principale delle destre contro l’immigrazione è costituito da un pregiudizio: che chi arriva in Italia vada a ingrossare le fila delle criminalità, e che dunque i migranti siano criminali per costituzione. Smontiamo questa tesi opponendo un semplice ragionamento.

È la difficoltà per i migranti di mettersi in regola, e dunque il diventare clandestini (non esserlo, perché la clandestinità o meno di una persona è definita per legge e non per natura), la causa principale del loro scivolare nel mondo della criminalità, perché senza possesso del permesso di soggiorno è per loro impossibile trovare un lavoro, permettersi di pagare l’affitto di una casa, acquistare il cibo. Insomma, senza poter lavorare regolarmente, l’unico modo per sopravvivere è ricorrere al mondo dell’illegalità, dell’economia sommersa – è poi un discorso paradossale se si pensa che la Bossi-Fini ha reso la clandestinità un reato di per sé.

Rimuovere gli ostacoli alla regolarizzazione, allora, darebbe a tutti la possibilità di uscire dalla marginalità e dal disagio socio-economico, di uscire dal mondo dell’illegalità, di immaginare e poter realizzare un futuro desiderabile, di poter accedere a diritti e doveri dei cittadini, ai servizi statali. Tutto ciò creerebbe fiducia e fedeltà nei confronti dello Stato, e a queste condizioni a chi verrebbe in mente di delinquere (anche solo evadendo le tasse)?

L’immigrazione non è un’emergenza

Ultima, breve riflessione. La grande migrazione dal Nord Africa verso l’Europa (e l’Italia) è iniziata in seguito alle cosiddette “primavere arabe” del 2011. Ma allora possiamo ancora parlare legittimamente di emergenza? Perché se con emergenza intendiamo un evento imprevisto, inaspettato, che coglie alla sprovvista, allora non possiamo classificare in questo senso le migrazioni che provengono dal Nord Africa. Abbiamo avuto più di dieci anni per mettere a punto gli strumenti adatti a governare sia la fase di accoglienza che quella di integrazione. Trattare le migrazioni come una situazione emergenziale maschera, in verità, una precisa scelta politica: quella di non voler integrare nel corpo dello Stato certe categorie di stranieri – prima erano i cinesi, poi i musulmani e i neri: chi saranno i prossimi?

In tutta questa faccenda, solo una cosa non si può mettere in discussione: le migrazioni non possono essere fermate. E non devono essere fermate. Lo spostamento è costitutivo del genere umano: è ciò che ha permesso la nostra sopravvivenza come specie; è ciò che ha consentito a miliardi di persone, nel corso dei millenni, di sfuggire alla povertà e alla morte – pensiamo alla grande migrazione degli italiani di fine Ottocento –, di esplorare e conoscere il nostro pianeta, di entrare in contatto – non sempre in maniera positiva – con altri esseri umani.

Ecco, se allora bisogna proprio trovare un dato costitutivo degli esseri umani – tutti, non solo una parte –, non sono le varie tradizioni culturali e religiose – come quelle giudaico-cristiane e greco-romane tanto care al nazionalismo europeo contemporaneo –, ma proprio le migrazioni. La cosa giusta da fare sarebbe allora riconoscerlo, rivendicarlo, difenderlo, agevolarlo.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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