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Il partito dell’astensione

Tra destra e sinistra, ha vinto...il niente. Un commento dei risultati delle elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio.

Sono terminate da poco le operazioni di voto in Lombardia e nel Lazio per eleggere i Presidenti delle due regioni e i risultati hanno premiato il centrodestra.

In Lombardia ha vinto Attilio Fontana, che si riconferma alla guida della regione, con il 54,7% delle preferenze. Ben davanti a Pierfrancesco Majorino (33,9%), il candidato sostenuto da Pd, Movimento 5 Stelle e Verdi e Sinistra, e a Letizia Moratti (9,9%), lanciata da Azione-Italia Viva. L’alleanza di governo, quindi, fa il pieno di seggi al prossimo consiglio regionale: saranno ben 47, sugli 80 totali, i rappresentanti di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, contro i 17 del Partito Democratico, i 3 del Movimento e i 7 riferibili alla Moratti. Il distinguo nelle forze di opposizione è rilevante perché rende la vittoria del centrodestra ancora più schiacciante.

Anche nel Lazio il centrodestra governerà per i prossimi cinque anni. A vincere è Francesco Rocca, l’ex presidente di Croce Rossa, che si assicura il 53,9% dei voti. Segue Alessio D’Amato (33,5%), che ha corso con il sostegno di Azione-Italia Viva, Pd, Verdi e Sinistra e Radicali, mentre il Movimento 5 Stelle ha deciso di proporre la propria candidata, Donatella Bianchi, che si è attestata sul 10,8%. Al consiglio regionale, dunque, ampia maggioranza del centrodestra, con 30 seggi su 50.

Anche scomponendo i voti, il risultato è abbastanza omogeneo: in entrambe le regioni, il centrodestra sarà a trazione Fratelli d’Italia, anche se in maniera meno netta in Lombardia. E anche l’opposizione sarà guidata dal Pd, che ha superato il 20% sia in Lombardia che nel Lazio.

Con queste due vittorie, la geografia del voto in Italia si sbilancia ancora di più a destra: diventano 16 le regioni a guida della coalizione di governo, mentre solo quattro restano “rosse”.

Le reazioni dei protagonisti

Non hanno tardato a farsi sentire le voci dei protagonisti. Mentre tra gli sconfitti continuano le inutili accuse e recriminazioni reciproche, il centrodestra esulta per la vittoria. Da Salvini a Meloni a Sangiuliano, gli esponenti di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia non si sono risparmiati nel celebrare quello che ai loro occhi è stato un grande risultato. Per Antonio Tajani, questo è «un voto di fiducia nel governo», mentre è ancora più netto il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida: «Se confermato, è un dato superiore anche rispetto a quello delle elezioni politiche conseguito tre mesi fa». Sulla stessa linea è Lucio Malan, capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia: «guadagniamo 4 punti in Lombardia e 8 nel Lazio, rispetto alle scorse politiche».

Chi ha vinto?

Ma è davvero così? Il centrodestra ha egemonizzato due regioni strategiche come Lombardia e Lazio, rinsaldando la propria posizione di governo? No. Tutti questi commenti, infatti, non tengono volutamente conto di un dato cruciale: a votare è stata una minoranza di cittadini lombardi e laziali. Queste elezioni regionali non le hanno vinte i partiti, ma l’astensionismo. In Lombardia ha votato il 41,7% degli aventi diritto, circa uno su quattro. E nel Lazio si è fatto ancora peggio: appena il 37,2%.

Dati impietosi, che ridimensionano ampiamente i risultati e le affermazioni dei leader di maggioranza. Che, furbescamente, tirano acqua al proprio mulino, “dimenticandosi” che le percentuali raggiunte si basano su un numero esiguo di partecipanti rispetto a quello che avrebbe dovuto essere. Perché è vero che in Lombardia la percentuale di voti è aumentata rispetto alle politiche di settembre (54,7% contro il 50,6% dell’autunno), ma in termini assoluti il calo è drastico: -786.313 voti.

Ma, soprattutto, quello dell’astensionismo è un dato che obbliga a riflettere.

La grande depressione

Così l’ha chiamata Michele Serra: la «grande depressione». Di un elettorato disilluso dalla politica, inerte, che si è arreso di fronte alla realtà: il proprio voto non serve a niente. Ma perché questa “grande depressione” o, con le parole di Goffredo Buccin, «catalessi civile»?

I motivi, o forse è meglio chiamarle colpe, sono molte. E per lo più ascrivibili alla politica.

Perché, fa notare Buccini, «i cittadini sono interessati alla cosa pubblica». Ma, aggiungiamo noi, l’interesse non è reciproco. Sempre di più, infatti, gli elettori si sentono sfruttati da politici che si presentano nelle periferie solo in concomitanza degli appuntamenti elettorali, salvo poi sparire con la stessa velocità con cui sono andati a chiedere voti. Che promettono e non mantengono – o lo fanno solo in parte. E che fondano la propria strategia politica sul discredito dell’avversario. Distruzione e non costruzione.

Tutto ciò allontana i cittadini, li mortifica, li fa sentire impotenti e, francamente, inutili. Perché vorrebbero sentirsi partecipi di una visione del mondo, di una proposta politica che tocchi i temi veramente importanti – istruzione, sanità, diritti. Che, evidentemente, manca. Ed è un problema, questo, che tocca soprattutto i partiti dell’area dem e progressista. Impegnati più a rimarcare ciò che li divide, invece di lavorare per trovare un punto d’incontro.

Il profilo dell’astenuto

Ma chi sono gli astenuti? Che lavoro fanno? In che fascia d’età si collocano? A scovarli ci ha pensato YouTrend, che, analizzando i dati, ha provato a dargli un volto.

In Lombardia, è più probabile che l’astenuto abbia tra i 35 e i 54 anni, che sia una donna casalinga o un disoccupato, a cui la politica non interessa e che non stima né il governo Meloni, né Attilio Fontana.

Anche nel Lazio, l’identikit dell’astenuto ha una caratterizzazione di genere (è una donna) ma meno marcata rispetto alla Lombardia. Ed è una persona che più probabilmente non lavora né ha un diploma superiore, che ha poca fiducia nei leader politici e nelle istituzioni, e che sarà un astenuto recidivo – non voterà nemmeno alle prossime elezioni politiche.

I margini di manovra sono molti. Starà alla politica saperli cogliere. E tornare a scaldare i cuori delle persone.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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