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25 aprile 1945. La Liberazione dell’Italia dal nazifascismo

Per la rubrica Hi, Storia!, celebriamo la Festa della Liberazione dall'occupazione nazifascista ricordando il 25 aprile 1945 e le gesta di chi ha reso possibile costruire l'Italia che oggi conosciamo

Mercoledì 25 aprile 1945. Milano, ore 8:00.

Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.

La voce di Sandro Pertini, membro di spicco del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, irrompe nelle case dei milanesi. O almeno, di chi è sintonizzato su Radio Milano Liberata. Come Alessandro, che ha 15 anni. È seduto in cucina con sua mamma, Margherita. Sul tavolo, come da 20 mesi a questa parte, ci sono due tozzi di pane nero duro e una tazza, con un filo di latte al fondo. È ciò che è rimasto della razione che Margherita ha acquistato al mercato nero la settimana scorsa. Al centro del tavolo, la radio modello “Ovetto 103” della Savigliano. L’aveva comprata Carlo, il padre di Alessandro, nell’autunno del 1940, quando sembrava che, da un momento all’altro, la guerra potesse finire e l’Italia trionfare al fianco dell’alleato tedesco.

Ma non era andata così. La guerra doveva durare poche settimane. Che si sono trasformate in mesi. Durissimi. Le razioni di cibo sempre più scarse, le notizie dal fronte. Le sconfitte. Da quella Ovetto 103, tutta la famiglia di Alessandro, lui, il padre, la madre e i due fratelli maggiori, Vittorio e Giacomo, il 25 luglio 1943 avevano ascoltato Pietro Badoglio annunciare l’arresto di Mussolini e la fine del regime fascista. Ed erano scesi in piazza, a gridare e piangere con i propri concittadini, ad accanirsi sui simboli del regime. E sempre dalla Ovetto 103, l’8 settembre avevano ascoltato Badoglio annunciare l’armistizio firmato con gli Alleati il 3 settembre.

Si erano illusi che la guerra fosse finita. Ma i giorni più duri, per Milano, dovevano ancora arrivare. Quelli dell’occupazione nazista e della Repubblica di Salò, una versione nuova ma non meno feroce del regime fascista, uno Stato fantoccio alle dipendenze dirette del Reich tedesco. Un vero e proprio regime del terrore e della fame, della violenza e dei soprusi. Un regime della morte. Ma dovevano ancora arrivare anche i giorni dei bombardamenti a tappeto alleati, degli agguati dei partigiani e delle rappresaglie naziste. Delle deportazioni.

Era il febbraio del ’44, quando Carlo, Vittorio e Giacomo decisero di prendere la via della montagna. Di aggregarsi ai partigiani. Carlo non era un “rosso”, anzi. Era un monarchico liberare. Uno che rimpiangeva i bei tempi dei governi di Giolitti. E inizialmente era stato anche a favore di Mussolini. Era un docente, e nel 1931, anche se controvoglia, aveva prestato il giuramento di fedeltà al regime. Dei socialisti non si fidava, mentre i comunisti, con la loro idea di rivoluzione, non li poteva proprio vedere. Lo spaventava il disordine, il caos. Preferiva l’ordine costituito nel quale era cresciuto. Eppure, finì con l’aggregarsi proprio a loro, ai comunisti. Entrò nelle brigate Garibaldi. Perché qualcosa era cambiato, dal 1940. Non era un “rosso”, certo, ma era diventato fermamente antifascista. E non sempre le due cose combaciavano.

Alessandro voleva andare con loro, sentiva forte dentro di sé il senso dell’ingiustizia, la voglia di cambiare una realtà che non gli andava bene, che non gli piaceva. La voglia di determinare il proprio futuro. Si cresceva in fretta, in quegli anni. Ma le lacrime di Margherita lo avevano fatto desistere. E aveva scelto di restare lui, accanto alla madre.

Assieme a lei, attorno a quel tavolino tutto rovinato della cucina, attaccato a quella Ovetto 103 della Savigliano, aveva ascoltato degli Alleati che risalivano la penisola. Aveva ascoltato i bollettini di guerra. Aveva ascoltato delle azioni di lotta dei partigiani. E, purtroppo, delle stragi dei nazifascisti. Come la strage di piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, quando 15 partigiani vennero fucilati e i loro corpi lasciati esposti al caldo e alle mosche, con cartelli di schernimento (“assassini”, recitava uno di questi) e un plotone di repubblichini a oltraggiarli e a impedire qualsiasi forma di omaggio ai defunti. Alessandro era sceso in piazzale Loreto, quel giovedì 10 agosto. Non aveva notizie del padre e dei fratelli da quattro mesi, ormai. E sperava di non vederli proprio quel giorno. O come la strage di Sant’Anna di Stazzema, nei pressi di Lucca, avvenuta il 12 agosto 1944, quando i nazifascisti trucidarono 392 uomini, donne e bambini. Tra le vittime c’era anche Anna Pardini, che aveva solo 20 giorni di vita. O come la strage di Marzabotto, nel bolognese, quando i nazifascisti, per sei giorni, dal 29 settembre al 5 ottobre, uccisero quasi 800 persone.

Ma attorno a quella radio, Margherita e Alessandro avevano anche gioito. Il 5 giugno 1944, quando le truppe americane entrarono in una Roma già svuotata dai nazifascisti; il 16 aprile 1945, quando il Comitato piemontese di Liberazione Nazionale lanciò lo sciopero generale. Esultarono il 21 aprile, quando gli Alleati sfondarono la Linea Gotica e dilagarono nel Centro-nord ed entrarono in città che erano già state liberate dalla sola azione partigiana: Bologna, Venezia, Genova – furono 125 le città a liberate dai soli partigiani nell’ultimo mese di guerra.

Quel 25 aprile, seduti sulle sedie attorno al tavolo della cucina, sul quale, negli ultimi quattro anni, c’era stata la radio Ovetto 103 della Savigliano, ci sono solo Alessandro e Margherita. Carlo, Vittorio e Giacomo non c’erano in piazzale Loreto il 10 agosto 1944. Ma di loro non sono arrivate più notizie. Chissà, forse si rincontreranno per le strade di Milano nei prossimi giorni. Forse le braccia di Alessandro sfioreranno quelle di Giacomo, mentre abbattono entrambi l’enorme aquila fascista che spunta da un palazzo di Via Vittorio Emanuele. Forse gli occhi di Margherita incroceranno quelli di Carlo, mentre la sua brigata sfila tra le vie di una Milano liberata dai repubblichini e dai nazisti. Liberata dalla presenza di Mussolini che, la sera del 25 aprile, come un codardo fuggiva verso la Svizzera, travestito da soldato tedesco, sperando di avere salva la vita.

La guerra non era ancora finita, certo. Ufficialmente, lo sarà solo due settimane dopo, il 7 maggio 1945, quando la Germania firmerà l’atto di capitolazione. Ma, per gli italiani, per gli antifascisti, quell’oscuro capitolo della storia nazionale chiamato fascismo finì il 25 aprile 1945. Di lì a poco, ne inizierà un altro: quello della democrazia, della libertà, della Repubblica.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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