24 febbraio 2022. Donbass, Ucraina.
È l’alba. Un rombo squarcia il silenzio. Non è una novità, per gli abitanti del Donbass. È dal 2014 che, a casa loro, c’è la guerra.
Il Donbass è una regione di confine. Tra Russia e Ucraina. Ma è una divisione che si attenua, fino a sfumare, quando si parla delle persone che, nel Donbass, ci vivono. Oggi si dividono tra russofoni e ucraini, ma fino a trent’anni fa erano tutti figli dell’Unione Sovietica. Anche se un certo sentimento nazionalista non si è mai sopito.
Poi, il crollo del muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss. L’indipendenza dell’Ucraina. Il Donbass a dividerla dalla Russia. E le regioni di confine, si sa, sono quelle in cui le tensioni restano latenti, nella società. Serpeggiano. Avvelenano i rapporti. Le regioni di confine, specie in seguito a dissoluzioni e ricomposizioni di entità statali, sono bombe a orologeria, pronte a esplodere.
Un primo passo verso la deflagrazione è stato mosso tra 2013 e 2014. L’Euromaidan, il grande movimento di manifestazioni europeiste che ha scosso l’Ucraina, ha costretto il filorusso presidente ucraino Viktor Janukovyč alla fuga, il 23 febbraio 2014. Gli ucraini avevano scelto di avvicinarsi all’Unione europea e alla Nato. Uno sgarbo inaccettabile, per la Federazione Russa. Appena cinque giorni dopo, il 28 febbraio, l’esercito russo entrò con la forza nella Crimea, annettendola alla madrepatria. E il 6 aprile le regioni di Donetsk e di Lugansk si autoproclamarono repubbliche indipendenti. Con l’appoggio della Russia.
Per questo, nel Donbass, la guerra è di casa. Ma dall’ottobre dell’anno scorso, qualcosa di più grosso si sta muovendo. Gli abitanti della regione sono abituati a vedere militari e resistenti, armi e mezzi pesanti. Questa volta, però, c’è qualcosa di diverso. Il clima è particolarmente teso. I bombardamenti si sono moltiplicati. I militari russi sono molti più del solito. Ci sono i carri armati. Lo stesso dispiegamento di forze si vede in Bielorussia e in Crimea. E Putin, nelle sue dichiarazioni pubbliche, usa sempre di più parole “genocidio dei russofoni”, “denazificare l’Ucraina”, “missione di mantenimento della pace”. In realtà, il suo progetto è molto più essenziale: riacquistare la sovranità sull’Ucraina per ricostruire i confini dell’Unione Sovietica. Un allargamento territoriale. Che è iniziato nove giorni fa, il 15 febbraio, con un’azione simbolica: il riconoscimento delle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk.
Ecco il pretesto per attaccare. Putin lo ha appena annunciato, questa mattina: inizia l’«operazione militare speciale» nell’Ucraina orientale, per “garantire la sicurezza dei cittadini russi”.
Tradotto: entriamo in guerra per conquistare l’Ucraina.
Cadono le bombe e i missili. Nel Donbass. A Kiev. A Odessa. A Charkiv. E l’esercito sfonda i confini. Entra con la forza in Ucraina. A nord dalla Bielorussia. A est dalle repubbliche secessioniste. A sud, dalla Crimea. A niente è valso il discorso del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in cui chiedeva ai russi di “dare una possibilità alla pace”.
La mattina del 24 febbraio 2022 Putin, quella possibilità, l’ha eliminata da qualsiasi possibile scenario. Per fortuna, non è andata come aveva immaginato: l’esercito ucraino, nettamente inferiore e peggio equipaggiato, ha resistito al primo attacco. Ha resistito al secondo, al terzo, al quarto attacco. Ha resistito alle devastazioni delle bombe, alla fame, alle decine di migliaia di morti innocenti. Alle stragi di civili. E continua a farlo. Da un anno esatto
Sperando che, nel più breve tempo possibile, possa finalmente arrivare la pace. E dichiararsi, se non vincitore, quantomeno non sconfitto. Perché ciò che conta, oggi, è che questa spirale di violenza e di morti finisca. Che si arrivi a un “cessate il fuoco”. Ma non a qualsiasi condizione.
Di certo, non a quelle russe.