Negli ultimi anni del XIX secolo il regno d’Italia fu attraversato da una acuta fase di crisi politica e sociale. L’aumento dei prezzi del pane del 1898 causò manifestazioni popolari che furono represse dal governo del marchese Antonio di Rudinì con decisa fermezza proclamando lo stato d’assedio: tra il 6 e il 9 maggio di quell’anno, a Milano, le truppe del regio esercito usarono l’artiglieria contro la folla e arrestarono condannando a pene durissime capi socialisti, radicali e repubblicani. Il 29 luglio del 1900 il re Umberto I, tra i più attivi sostenitori della politica repressiva che avrebbe limitato molto il diritto di sciopero, le libertà di stampa e di associazione, cadde vittima di un attentato per mano dell’anarchico toscano Gaetano Bresci. Nel 1901, per calmare le acque, il nuovo re Vittorio Emanuele III chiamò al governo il leader della sinistra liberale Zanardelli. È in questo contesto che si iniziò la carriera di uno dei politici più influenti del suo tempo, così importante che un periodo della storia d’Italia prende il suo nome: Giovanni Giolitti, che fu chiamato da Zanardelli al Ministero degli Interni.
Politiche liberali in età giolittiana
La politica di Giolitti si caratterizzò per la capacità del partito liberale di cimentarsi in politiche progressiste e per un uso spregiudicato del gioco politico, sia nelle elezioni sia con improvvisi dimissione dal governo per poi ritornare con una rinnovata maggioranza. Un esempio di questa svolta progressista della politica liberale si vede nell’operato del governo Zanardelli-Giolitti che, tra il 1901 e il 1903, estese le norme che limitavano il lavoro minorile e femminile nell’industria, migliorò la legislazione sulle assicurazioni per gli infortuni sul lavoro e municipalizzò i servizi pubblici di elettricità, gas e trasporti ai comuni.
Un esempio della politica spregiudicata di Giolitti è rintracciabile nei suoi governi 1904-05 e 1906-09: nel primo rese le ferrovie di proprietà dello Stato, nonostante la forte opposizione sia dalla destra che dalla sinistra parlamentare; nel secondo, con politiche più vicine al mondo liberale, realizzò la conversione della rendita che ridusse il tasso di interesse versato dallo Stato ai possessori di titoli del debito pubblico. La virata verso politiche progressiste fu accompagnata da politiche liberali che avevano l’obbiettivo di favorire il decollo industriale italiano: la statalizzazione della rete ferroviaria favorì i processi di commercializzazione, le politiche protezionistiche permisero la creazione di una moderna industria siderurgica e il riordino del sistema bancario da parte dello Stato creò una struttura finanziaria solida verso gli investimenti industriali.
Nel complesso, la politica giolittiana fu criticata da ogni parte: a sinistra, i socialisti rivoluzionari e i cattolici democratici imputarono a Giolitti di far opera di corruzione all’interno dei loro movimenti; a destra, i liberali-conservatori lo accusarono di mettere in pericolo l’autorità dello Stato venendo a patti con i nemici storici delle istituzioni; i meridionalisti, tra cui Gaetano Salvemini, denunciarono il malcostume politico nelle regioni del Sud criticando la politica economica giolittiana che, dal loro punto di vista, ostacolò lo sviluppo delle forze produttive del Mezzogiorno in favore della industria protetta e delle «oligarchie operaie» del Nord.
Una caratteristica dell’agire politico di Giolitti era quella di, nei momenti difficili, rassegnare le dimissioni, sapendo che un nuovo governo sarebbe comunque stato debole e avrebbe costretto il re ad affidare nuovamente a lui l’incarico di formare un governo. L’ultimo colpo di mano avvenne nel maggio del 1914, ma questa volta la Storia giocò le sue carte prima dello statista: lo scoppio della Grande guerra cambiò radicalmente il volto politico, geo-politico, economico e sociale del Vecchio Continente, facendolo approdare all’età contemporanea.
Nel 1920 ci fu l’ultimo governo di Giolitti, ma oramai, nella realtà del primo dopoguerra, il partito liberale e lo statista piemontese stesso rappresentavano qualcosa di vecchio, di anacronistico, non al passo con i tempi. Fu proprio con categorie di pensiero vecchie che nel 1922 il partito liberale, e lo stesso Giolitti, votarono la fiducia al governo Mussolini: di fatto, possiamo incastonare in questa data la fine dell’esperienza liberale classica italiana.
Il “suffragio universale” maschile
Bisogna ancora trattare un argomento della politica giolittiana che rappresentò una svolta epocale, in senso progressista, nella storia d’Italia. Ritornato al governo nel marzo 1911, Giolitti estese, conformando l’Italia a buona parte dei paesi europei, quello che può essere considerato un “suffragio universale maschile” seppur non del tutto completo: il diritto di voto fu garantito a tutti i cittadini maschi adulti che avessero compiuto i trent’anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o che avessero prestato servizio militare. In realtà, venne mantenuta un vincolo censitario di tipo liberale per i maggiorenni appartenenti alle classi sociali medie e alte, poiché la clausola dell’alfabetizzazione fino al trentesimo anno d’età limitava parecchio la platea, ma fu comunque un enorme passo in avanti. Ovviamente, in questo sistema le donne di ogni estrazione sociale e livello di cultura erano escluse.
Proprio l’applicazione di questo sistema creò la crisi del sistema giolittiano, portando il corpo elettorale da poco più di tre milioni a 8.672.000 unità. Questo comportò un ingresso nel Parlamento di un piccolo gruppo nazionalista e un aumento della presenza dei socialisti e dei cattolici. Nonostante ciò, i liberali riuscirono a mantenere un’ampia maggioranza, ma eterogenea e divisa rispetto al passato, e nella quale la mediazione giolittiana trovò profonde difficoltà di manovra.