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Fine pena quando?

Il caso Cospito ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema del carcere, delle sue misure e della sua finalità: punizione o rieducazione? Isolamento o reinserimento?

La questione di Alfredo Cospito, l’anarchico al 41bis in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, ha riaperto in Italia il gravoso dibattito sul carcere. L’ultima volta che il problema carcere aveva sconfinato nel dibattito pubblico, era il 2017. Totò Riina stava per morire e la Cassazione, annullando la sentenza del tribunale di Bologna che negava a Riina i domiciliari, in sostanza garantiva al boss di Cosa Nostra il diritto a una fine dignitosa. La società si spaccò tra chi era contrario per principio e chi, invece, era favorevole, appellandosi al principio secondo cui «la pena carceraria non [può] e non [deve] mai trasformarsi in una sofferenza atroce e irreversibile».

Ecco, il caso dell’anarchico Cospito, pur nella differenza delle circostanze, ha riproposto, in maniera dirompente, questioni molto simili. Ci si è chiesti di nuovo quale sia – e quale debba essere – il ruolo dell’istituzione carceraria, e se alcuni dispositivi, come il 41bis e l’ergastolo ostativo, siano compatibili con uno Stato di diritto.

Alfredo Cospito, il primo anarchico al 41bis

Per capire il perché, bisogna riassumere la storia di Cospito.

Appartenente all’area dell’anarchismo, Alfredo Cospito è stato processato e condannato per diversi reati. I più gravi, per i quali ha ricevuto due condanne e trent’anni complessivi di carcere, sono stati il ferimento di Roberto Adinolfi (10 anni e 8 mesi), l’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare, e, soprattutto, l’attentato bombarolo alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo (20 anni). Attentato che, fortunatamente, non ha coinvolto nessuna persona, ma la cui gravità è insindacabile.

Cospito è in carcere dal 2012, in regime di alta sicurezza. Fino a pochi mesi fa, ha potuto intrattenere relazioni epistolari con l’esterno, fornire contributi alle riviste dell’area anarchica, ricevere visite, socializzare con gli altri detenuti. Poi, nel maggio 2022, il Ministro della Giustizia Cartabia ha disposto per lui l’applicazione del 41bis, perché ritenuto il «capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo», la Fai-Fri (Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale), sigla con il quale era stato rivendicato l’attentato di Fossano, e in grado di mantenere contatti con tale organizzazione. Una decisione che ha lasciato qualche dubbio – ne ha parlato Alessandro Trocino sul Corriere della Sera, chiamando in causa un contributo dello storico Gianfranco Ragona sull’Huffington Post –, ma che gli è valsa il carcere duro: isolamento dai detenuti “comuni”; ora d’aria limitata (due ore al giorno) e con interazioni sociali minime; un colloquio al mese, di un’ora, con i familiari; limitazione e controllo della corrispondenza in entrata e in uscita.

Poi, a luglio 2022, la Cassazione ha accolto la richiesta del procuratore generale della Corte d’Appello di Torino di riconsiderare il reato di strage per cui Cospito era stato condannato: da strage comune a strage politica (art. 285 C.p.). Ciò significa che, nell’azione di Cospito, è stata riconosciuta la «finalità politica di porre in pericolo la sicurezza dello Stato». Anche su questo punto si potrebbe aprire una voragine interpretativa. Basti ricordare quanto scrive il rapporto Antigone sul caso Cospito: «Quella della strage contro la sicurezza dello Stato è una fattispecie che non venne contestata nemmeno agli autori della strage di Piazza Fontana o degli attacchi che uccisero i giudici Falcone e Borsellino». Risultato: c’è il rischio concreto che la pena, da 20 anni, si trasformi in ergastolo ostativo. Nessuna possibilità di accedere a benefici o a misure alternative al carcere, a meno che il detenuto non accetti di collaborare con la giustizia.

Così, il 20 ottobre Cospito ha iniziato uno sciopero della fame, che non ha alcuna intenzione di interrompere. Così come non ha intenzione di accettare l’alimentazione forzata. Non per sé stesso, dice, ma per rimuovere dall’ordinamento il 41bis e il carcere ostativo. In tre mesi, Cospito ha perso oltre 40 chili e le sue condizioni di salute sono diventate precarie, gravi. Ma il trasferimento dal carcere di Sassari al carcere Opera di Milano, dotato delle strutture sanitarie adeguate alla circostanza, è avvenuto solo il 30 gennaio, e dopo una lunga e aspra polemica.

La vicenda offre almeno tre spunti di riflessione interessanti, che proveremo qui a sviluppare.

Qual è la finalità del carcere?

La Costituzione è chiara. L’articolo 27 stabilisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma nella pratica è così?

Prendiamo a esempio la situazione di Cospito, che ci è nota, ma sapendo che in condizioni simili si trovano altre centinaia e centinaia di detenuti. È rieducativa la privazione dalle interazioni sociali o dall’accesso alla biblioteca, l’impossibilità di accedere ai benefici carcerari o ridurre la ricreazione? Togliere al detenuto la possibilità di relazionarsi con altre persone in che modo lo aiuterebbe a inserirsi nuovamente nella società, una volta usciti dal carcere?

E questo discorso vale solo per chi ha la “fortuna” – è un profondo dispiacere dover usare questo termine – di poter sperare di uscire dal carcere nonostante una condanna al 41bis o all’ergastolo – e in Italia solo il 30% degli ergastoli non è ostativo. Infatti, come ha documentato l’Associazione Antigone nel XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, il 31 dicembre 2021 il 62% dei detenuti era recidivo, e per il 18% di essi – un numero altissimo, quasi uno su cinque – era almeno la quinta carcerazione.

Questo dimostra che il carcere, se inteso come istituto di riabilitazione e reinserimento sociale, allo stato attuale non funziona. Le carenze sono molte, ma ne citiamo solo una, sempre dal XVIII Rapporto di Antigone: dal 2011 al 2016, il numero di detenuti iscritti a corsi di formazione professionale in Italia si è più che dimezzato (da 3.508 a 1.590), così come è calato il numero di corsi attivati in carcere (da 279 a 166). In buona sostanza, ai detenuti non vengono dati gli strumenti necessari a reinserirsi in modo sano nella società. Non ci si può stupire, allora, se una volta fuori dal carcere, essi reiterano la propria condotta.

Un carcere così pensato, altro non è che un luogo di confinamento della devianza sociale, da tenere ben lontano dalla parte “sana” della società. Ma non è questo che stabilisce la Costituzione.

Fine pena mai?

Se prendiamo in considerazione i condannati all’ergastolo ostativo, la situazione diventa drammatica, sotto molteplici punti di vista. Ma ha particolare importanza il piano istituzionale.

Negare a un detenuto l’applicazione dei benefici penitenziari, quali il lavoro all’esterno, i permessi premio, le misure alternative e la speranza di uscire dal carcere, un giorno, significa negare quel principio che la Costituzione impone. Significa trasformare il reato commesso in una colpa inespiabile e obbligare il detenuto a riviverlo, ogni giorno, per tutta la vita, senza possibilità di redimersi.

Significa, di fatto, condannarlo a morte nel momento stesso in cui la misura viene applicata, anche se chi ha commesso il reato ha ancora una vita davanti a sé. Come Cospito. Come altro si può definire, infatti, una condizione permanente di isolamento, fisico e sociale? Come qualificare una vita in cui si può vedere una volta al mese un famigliare, in cui è negato il diritto a leggere e a scrivere, in cui non si può comunicare con l’esterno? Un’esistenza fatta di sorveglianza costante, sapendo di non poter far nulla per cambiare questa condizione, si può chiamare vita?

È una pena “umana”, questa?

Qual è la forza di uno Stato di diritto?

Ecco, allora, che l’ergastolo ostativo infrange due volte la Costituzione: non è finalizzato alla rieducazione del detenuto e viola l’umanità della pena. Perché l’ergastolo ostativo è una ritorsione, una vendetta.

Ma uno Stato di diritto deve tutelare i suoi cittadini. Tutti. Quelli che vengono derubati, feriti, aggrediti, violentati. Ma anche quelli che derubano, che feriscono, che aggrediscono, che violentano. E questo non vuol dire giustificare, vittimizzare o minimizzare. Chi ruba, aggredisce o violenta è giusto che venga sanzionato con le pene adeguate, che stabilisce il Codice penale.

Nel decidere la pena, bisogna distinguere l’aspetto etico-morale da quello giuridico. Per quanto un crimine possa creare riprovazione o disgusto, non significa che, a chi l’ha commesso, debba essere tolta ogni possibilità di cambiare, di migliorarsi, di costruirsi una vita soddisfacente. A questo dovrebbe servire il carcere. O almeno così l’avevano pensato i Costituenti, che il carcere l’avevano vissuto sotto il regime fascista. Come ha scritto Lucrezia Tiberio, «non si tratta di negare la colpevolezza di alcuni soggetti, ma l’esecuzione della pena. Lo Stato non può usare nei confronti dei detenuti degli strumenti che sono punitivi a tal punto da negare qualsiasi riappropriazione di libertà nel futuro, perché lo Stato non può essere disumano. Qualunque sia il reato commesso, a prescindere dalla disapprovazione sociale che ne deriva, il carcere non può distruggere l’identità della persona», se vuole essere uno Stato di diritto.

Uno Stato che applica le proprie leggi in modo umano, giusto, equo, ragionevole, anche di fronte a crimini atroci, non è uno Stato debole, come invece parrebbero suggerire i sostenitori del “con i terroristi e i mafiosi non si tratta”. Perché giudicare con umanità, equità, giustizia non significa trattare, né tantomeno perdere. Come ha scritto ancora Alessandro Trocino, «il garantismo, l’umanità, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo non sono un cedimento a nulla […] non rendono debole uno Stato, semmai lo rafforzano». E il modo in cui lo Stato ha affrontato – e sta affrontando – il caso di Alfredo Cospito ci mostra, ancora una volta, che dietro un muro di apparente forza, il nostro è uno Stato fragile. Che non sa fare autocritica e non sa fare i conti con fenomeni sociali come la criminalità e l’immigrazione. E forse non è un caso che, in entrambi i casi, il modo di affrontarli sia di segregarli dalla parte di società considerata “sana”, “normale”, “giusta”: l’immigrazione bloccandola dietro ai confini nazionali, la criminalità rinchiudendola nelle carceri. E gettando la chiave.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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