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La marcia dei 40.000

14 ottobre 1980, Teatro Nuovo, Torino Esposizioni.

Sono le prime ore del mattino e il caporeparto delle sellerie in Fiat, Luigi Arisio, sta arringando circa 18.000 persone, tra dirigenti e quadri dell’azienda, prima dell’inizio del corteo passato alla storia come “marcia dei 40.000”. Marcia che cambierà per sempre il rapporto di forza esistente tra vertici aziendali e sindacati, che segnerà quindi l’inizio di una profonda trasformazione all’interno della società.

La lotta dei 35 giorni

Durante tutti gli anni ’70 – a partire dall’autunno caldo del 1969 – la Fiat visse un periodo di grosse difficoltà, dettato sia dalla conflittualità che continuava a vigere all’interno dell’azienda, sia da una grave crisi finanziaria cominciata nel 1973 e scatenata da vari fattori, come l’inadeguatezza manageriale e la crisi petrolifera.

Nel 1974, anno in cui Gianni Agnelli prese le redini dell’azienda e divenne dirigente Cesare Romiti, venne imposta la cassa integrazione a 70.000 dipendenti. Iniziò così, inevitabilmente, un periodo di contrasti sempre più accentuati tra i vertici aziendali e i dipendenti, i quali organizzavano continui scioperi ai cancelli. Anche i sindacati si scontrarono con una dura linea di intransigenza che sfociò, nell’estate del ’79, nel licenziamento di 61 dipendenti accusati di vicinanza ai terroristi – 57 di loro vennero in seguito scagionati in via definitiva.

Agli inizi degli anni ’80 la Fiat sembrò essere in ripresa: migliorarono i conti dell’azienda, crollò l’assenteismo in fabbrica, il sentore di terrorismo era stato allontanato. In questo clima si iniziò a preparare il rinnovo contrattuale previsto per la stagione autunnale.

Tra maggio e luglio, però, la situazione prese una piega diversa: venne inizialmente proposta una settimana di cassa integrazione per 78.000 dipendenti, che – secondo un’intervista rilasciata a «La Repubblica» da Umberto Agnelli, co-dirigente assieme a Romiti – «non sarà comunque sufficiente ad evitare possibili licenziamenti».

L’8 settembre 1980, presso l’Unione Industriale di Torino, prese il via il tavolo delle trattative tra l’azienda – che confermò di voler predisporre non solo la cassa integrazione a 0 ore per 24.000 dipendenti, ma anche 14.000 licenziamenti – e i sindacati, che invece proponevano la cassa integrazione a rotazione settimanale, prepensionamenti e blocco delle assunzioni. Ebbe così inizio la cosiddetta “lotta dei 35 giorni”: a Rivalta e a Mirafiori una grossa fetta di operai iniziò a scioperare, occupando gli stabilimenti, bloccando e presidiando 24 ore su 24 i cancelli delle fabbriche, permettendo l’ingresso solo agli addetti alla manutenzione e alla salvaguardia degli impianti, bloccando così l’attività produttiva. I sindacati, intanto, si confrontavano tra loro, mentre la Fiat aspettava che le manifestazioni si sgonfiassero.

Anche il governo fu travolto mentre era alla disperata ricerca di una possibile mediazione. In quei giorni, Enrico Berlinguer portò di persona la solidarietà e l’appoggio del Partito Comunista agli operai in lotta e il giorno seguente, a Roma, Cossiga fu costretto alle dimissioni: un duro colpo per i sindacati ma un’occasione per l’azienda torinese, che con una mossa astuta dichiarò di voler sospendere i licenziamenti fino a fine anno, trasformandoli in cassa integrazione al 90% e mobilità esterne. Gli operai e i sindacati però, soprattutto la Fim (Federazione italiana metalmeccanici, aderente alla Cisl), si mostrarono cauti e non sospesero la vertenza.

Intanto i dirigenti e i quadri dell’azienda mostrarono la loro volontà di rientrare negli stabilimenti e riprendere il lavoro e, sotto la spinta della stessa Fiat, iniziarono ad organizzarsi.

La marcia dei quarantamila quadri

Nel teatro nuovo di Torino esposizioni, la mattina del 14 ottobre 1980 – ovvero dopo 35 giorni dall’inizio dei picchetti operai –, si riunirono i vertici della Fiat, dirigenti e quadri provenienti da tutti gli stabilimenti, in un’assemblea del “coordinamento dei capi e quadri Fiat”. Al termine dell’incontro si formò un corteo silenzioso cui si unirono ai quasi 20.000 colletti bianchi anche gli operai della stessa azienda che non avevano condiviso gli scioperi del mese precedente. Il corteo sfilò per le vie del centro alla volta di piazza palazzo di Città, sede del municipio, issando striscioni invocanti l’apertura dei cancelli, il ritorno al lavoro e il ridimensionamento dei sindacati. Venne indicato come nemico principale, infatti, la Fim, che impediva la ripresa della produzione. Lo striscione di apertura del corteo recitava «Vogliamo la trattativa, non la morte della Fiat», e altri slogan distintivi furono, ad esempio, «Non siamo picchiatori, ma dei lavoratori» o ancora «Novelli, Novelli, fai aprire i cancelli» – il riferimento è a Diego Novelli, sindaco di Torino.

Il numero esatto dei partecipanti alla marcia non sarà mai confermato con esattezza: verrà ipotizzato tra i 30 e 40 mila, un numero comunque mai raggiunto in precedenza. La partecipazione segnò infatti un precedente storico sia per quanto riguarda i numeri che per ciò che concerne, soprattutto, i protagonisti: se fino a quel momento, infatti, c’era stata una netta distinzione di rapporti tra categorie come operai e dirigenti, da quel giorno si identificò una terza figura, ovvero quella del lavoratore che sta con il padrone. Iniziò ad indebolirsi così il potere operaio, si sgretolò il senso di appartenenza a una classe che aveva permesso loro di ottenere, nel decennio precedente, importanti conquiste – come lo Statuto dei Lavoratori. La sconfitta fu pesante anche per i sindacati: il giorno successivo alla marcia, i segretari di Cgil (Luciano Lama), Fim-Cisl (Pierre Carniti) e Uil (Giorgio Benvenuto), sottoscrissero l’accordo che accoglieva tutte le richieste della Fiat.

La fine di un’era

La marcia dei 40.000, assieme alla grande crisi del 1973, segna il definitivo tramonto di una stagione gloriosa sotto il profilo economico, sindacale, dei diritti dei lavoratori, delle lotte operaie. Con la conferma dei termini della vertenza – 24.000 dipendenti in cassa integrazione a 0 ore, che altro non è che l’anticamera del licenziamento –, i sindacati andarono incontro a un declino irrimediabile, lasciando libertà d’azione all’iniziativa dei proprietari delle aziende, i “padroni”. Era l’inizio di una nuova era nel mondo lavorativo: quella della delocalizzazione della produzione, delle “ristrutturazioni” delle aziende, della revoca di alcune di quelle conquiste ottenute con le lotte dell’Autunno caldo (come il depotenziamento della scala mobile, avvenuto con il famoso “decreto di San Valentino”), della flessibilità, della disoccupazione. Insomma, era l’inizio degli anni ’80.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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