«il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra, non si sa se la fortuna sia di destra, la sfiga è sempre di sinistra».
Con queste parole, nella canzone Destra-sinistra del 1994, Giorgio Gaber raccontò l’acquisizione delle idee liberali da parte di quella sinistra post-crollo sovietico. Una tendenza che oggi non si è fermata ma che, anzi, si è sempre di più consolidata. In queste brevi parole cercheremo di descrivere come si è verificato e quali sono le motivazioni che stanno dietro a tale fatto.
Una premessa fondamentale è che tale avvenimento non è affatto scontato; come abbiamo visto in articoli precedenti, il pensiero liberale è una dottrina politica di destra che poggia le proprie fondamenta sui diritti individuali emancipando l’individuo dalla collettività; pilastro fondamentale è la proprietà attraverso la quale l’uomo liberale costruisce la sua persona e la sua felicità, in quanto si sottrae dalla vita pubblica per quella privata; la volontà di lasciare il potere nella mani di una classe dirigente, selezionata tramite le elezioni secondo il principio della rappresentanza, che possiede i mezzi economici e culturali per governare con saggezza. Ciò nonostante, il pensiero liberal-democratico, come il pensiero repubblicano-democratico di Mazzini, nel corso della storia ha abbracciato idee progressiste come il suffragio universale e il benessere degli strati sociali più emarginati. Da ciò possiamo concludere che la presenza di un pensiero progressista è sempre stata presente nell’universo del liberalismo.
La Terza ondata della democrazia? Una pia illusione
Lungo il XX secolo il numero degli Stati nazionali è aumentato in modo verticale: da 62 nel 1913 a 195 nel 2015. Questa diffusione è difficile accostarla a un aumento del sistema politico democratico. Durante la Guerra Fredda un terzo della popolazione mondiale viveva in regime comunisti e al momento della loro dissoluzione, dal 1989 in poi, non tutti approdarono al sistema politico occidentale. Superficialmente si è visto il crollo del URSS come il crollo dell’utopia collettivista e il trionfo della democrazia individualista. Questo modo di pensare, oltre a mitizzare il reale aspetto del regime comunista-sovietico, non considera quanto la pressione delle politiche degli anni ’80 di Regan – che accentuarono la mortale competizione con l’Occidente – il peso della globalizzazione e il rinascere dei nazionalismi, mai sopiti, dentro le repubbliche sovietiche abbiano pesato sulla crisi dell’URSS.
Difficilmente, inoltre, possiamo parlare di una terza ondata della democrazia. Il mondo post-1989 è un mondo di tensioni latenti nel quale sono riemersi nazionalismi locali fomentati dai fondamentalismi religiosi; una tendenza attiva sia in Occidente sia nel resto del mondo. Il modello economico è quello del capitalismo finanziario globale che attraverso i suoi monopoli globali, le sue multinazionali, ha ben poco a che fare con il libero mercato e l’iniziativa individuale del liberalismo classico. In tale scenario le stesse democrazie liberali occidentali vivono una profonda crisi tanto è vero che per descrive il presente è stato coniato il termine post-democrazia.
Che cosa vuol dire che il pensiero liberale ora va bene per la sinistra?
Il crollo del blocco sovietico dal 1989 non è sufficiente per spiegare la tendenza della sinistra contemporanea a far suo il pensiero liberale. Nella realtà la sinistra occidentale, per tutto il XX secolo, ha abbracciato l’idea più progressista del pensiero socialdemocratico: il fine non era fare la rivoluzione, alquanto difficile negli Stati liberal-democratici, ma istituzionalizzare i diritti sociali attraverso la dialettica politica dell’attività parlamentare. Questo si verificò con forte incidenza nel trentennio del secondo dopoguerra, appunto il trentennio socialdemocratico, in cui anche la dottrina liberare classica si trasformò in quella liberal.
Possiamo individuare il motivo principale del crollo sovietico del 1989 nell’avvio inarrestabile della globalizzazione in quanto tale fenomeno, sotto forma di dipendenza crescente delle importazioni di merci, di tecnologia, di capitali esteri e di modelli culturali da parte del sistemo sovietico; ma, per gli stessi identici motivi, la globalizzazione ha rappresentato anche il trampolino di lancio del secondo sistema comunista, la Cina.
Per tornare all’Occidente, le politiche neoliberiste hanno eroso le politiche pubbliche e sociali degli Stati nazionali, che erano state le grandi conquiste della sinistra socialdemocratica occidentale. Ora, nel nostro mondo contemporaneo, si spiega l’avvicinamento al liberalismo da parte delle forze politiche perché la bandiera dei diritti individuali è l’ultima spiaggia contro le proposte estremamente individualiste e l’idea di un mercato senza il controllo di alcun ente; politiche che sono proposte dal neoliberismo. Inoltre, risulta essere un inutile sforzo, dal sapore romantico ottocentesco, arroccarsi in un ritorno alle politiche statali, aggrapparsi a una causa che si sa già che è persa. La crisi degli Stati nazionali è iniziata dal 1973 quando il costo delle strutture socialdemocratiche diventò insostenibile; allora come oggi le ricette furono le politiche neoliberiste, mentre il fronte socialdemocratico rimase fermo a un paradigma che non era più possibile perpetuare a causa di limiti strutturali dello Stato.