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Il Regno di Sardegna

Cattedrale di Palermo, 24 dicembre 1713.

Vittorio Amedeo II, duca di Savoia e principe di Piemonte, assieme alla moglie Anna Maria d’Orléans, viene incoronato re di Sicilia, mettendo fine alla lunga dominazione spagnola. La corona dell’isola, infatti, era stata concessa dalla stessa Spagna con il Trattato di Utrecht in seguito alla guerra di successione al trono spagnolo. Comunque, il regno durò poco: nel 1720, l’imperatore Carlo VI d’Asburgo costringeva Vittorio Amedeo II, con il trattato dell’Aia, a “scambiare” la corona di Sicilia con quella della Sardegna. Nasceva così il Regno di Sardegna, formalmente limitato alla sola isola e distinto dagli altri possedimenti ereditari dei Savoia – Piemonte, ducati di Savoia e Aosta, contea di Nizza –, ma nella sostanza uno Stato continentale a tutti gli effetti: la capitale de facto fu da subito Torino, dove risiedeva la corte.

Una dinastia guerriera di ancien règime

Casa Savoia, come amava ricordare Vittorio Emanuele II, era una dinastia guerriera. Le sue fortune le aveva conquistate in battaglia: l’eroica resistenza di Vittorio Amedeo II e del cugino, Eugenio di Savoia, nell’assedio franco-spagnolo della città Torino (1706) (che la propaganda fascista dipinse come l’inizio del Risorgimento) fu il preludio all’ottenimento del titolo regio; l’autonomia di cui godette per tutto il Settecento fu conseguenza del riconoscimento della sua forza militare, cosa che le permise anche di entrare nel gioco di alleanze delle grandi potenze europee e di partecipare ai diversi conflitti che insanguinarono l’Europa nella prima metà del XVIII secolo. I regni di Vittorio Amedeo II (1720-30) e del figlio Carlo Emanuele III (1730-73), però, si caratterizzarono anche per una spinta riformistica che strutturò il Regno sabaudo, rafforzandolo soprattutto dal punto di vista militare e rendendolo più efficiente. Ma nel 1796, di fronte all’armée d’Italie, Vittorio Amedeo III (1773-96) non poté fare nulla: sconfitto in battaglia, morì pochi mesi dopo la firma dell’armistizio con Napoleone (1796), lasciando il trono al figlio, Carlo Emanuele IV (1796-1802).

Fino alla Restaurazione la Corona si rifugiò prima nell’isola di Sardegna, poi a Roma, Napoli e Caserta, mentre i territori nel continente venivano riorganizzati da Napoleone. Solo nel 1815 il re Vittorio Emanuele I (1802-21) poté rientrare nella sua Torino e governare su un territorio che ora comprendeva anche la Liguria, zona prestigiosa, ricca e strategicamente importante vista la presenza del porto di Genova. La Restaurazione di Vittorio Emanuele I fu totale: la legislazione napoleonica fu cancellata e ripristinata la precedente, si interruppe il processo di laicizzazione, la pubblica amministrazione fu sostituita da nobili di salda lealtà verso la monarchia. Questa sua intransigenza si scontrò duramente con le rivendicazioni dei moti del 1821 e gli costò il trono: fermo nel non concedere la costituzione richiesta dagli insorti, preferì abdicare a favore del fratello minore, Carlo Felice (1821-31); vista la sua assenza da Torino, però, la reggenza fu affidata al nipote di Vittorio Emanuele I, Carlo Alberto, appartenente a un ramo secondario della dinastia reale. Fu lui a concedere una costituzione, nel 1821, che fu però abrogata al rientro di Carlo Felice in Piemonte. Carlo Felice non amava i piemontesi e Torino, dove passò poco tempo, preferendovi la Savoia e delegando l’amministrazione del regno ai ministri; egli preferiva l’arte, di cui era un grande estimatore, e proprio a Torino mise assieme il nucleo dell’attuale Museo Egizio. Morì il 27 aprile 1831 e, non avendo figli maschi, lasciò il trono a Carlo Alberto.

Il riformismo di Carlo Alberto

Fino all’avvento di Carlo Alberto, la monarchia sabauda aveva i tratti tipici delle monarchie assolute settecentesche: accentramento dei poteri nelle mani della Corona, sviluppo della forza militare, un rapporto con i sudditi di tipo paternalistico. Il regno di Carlo Alberto (1831-49), soprattutto verso la fine, segnò tuttavia una cesura con questo orientamento. Nato e cresciuto nella Torino di periodo napoleonico, Carlo Alberto era di simpatie liberali e, come abbiamo visto, nel 1821 si era mostrato vicino alle richieste dei rivoluzionari, salvo disattenderle poco dopo e tornare a più miti consigli. Salito al trono, nel primo decennio di regno si attestò su posizioni legittimiste, ma la sua vena riformista non rimase sopita a lungo: dalla fine degli anni ’30 vennero promulgati i nuovi Codici civile e penale, vennero stipulati trattati internazionali di commercio, addirittura firmò gli accordi preliminari per la creazione di una lega doganale italiana. Tuttavia, l’apice del riformismo carloalbertino fu raggiunto il 4 marzo 1848, con la concessione dello Statuto, che prevedeva la formazione di una Camera dei deputati elettiva e un Senato di nomina regia. Certo, il diritto di voto era fortemente limitato, legato com’era a un censo elevato, e l’esecutivo era strettamente dipendente dal sovrano, ma avere una costituzione significava chiudere con il passato assolutista e dare inizio a una nuova era. Facendo un bilancio complessivo del regno di Carlo Alberto, possiamo definirlo un ventennio molto positivo, che pose le basi per i grandi traguardi raggiunti il decennio successivo da Cavour: furono potenziate le infrastrutture, soprattutto il porto di Genova e le linee ferroviarie (tra queste, fu ideato il progetto per il traforo del Fréjus); fu creato un sistema bancario; fu intrapresa una politica di sviluppo del commercio internazionale; qualche miglioramento si registrò anche nel settore agricolo e in quello industriale; grazie alla “fusione perfetta”, nel 1847 la Sardegna e i territori nell’Italia continentale furono uniti dal punto di vista politico e amministrativo, andando a creare anche formalmente un regno unico. L’allentamento della censura diede nuova linfa al dibattito politico sulle sorti d’Italia, che in questi anni si arricchì di nuove e variegati correnti di pensiero (il neoguelfismo di Gioberti, il federalismo democratico e repubblicano di Carlo Cattaneo, l’ipotesi monarchica dei liberali).

Il regno di Carlo Alberto terminò nel 1849, dopo le pesanti sconfitte contro l’Austria nella Prima guerra d’indipendenza: era stato un liberale e un riformista, ma non aveva voluto mettersi alla testa del movimento patriottico e sfruttare la grande occasione che i moti del 1848 gli avevano offerto – la crisi interna dell’Austria, il sostegno degli altri sovrani italiani, la grande partecipazione di volontari da tutta la penisola accanto all’esercito regolare, la strada spianata dalle “Cinque giornate di Milano”. Il 23 marzo 1849 Carlo Alberto abdicava al figlio, Vittorio Emanuele II, e andava in esilio in Portogallo.

Dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia

Il regno di Vittorio Emanuele II iniziò con una delle decisioni che ebbe gli effetti più importanti negli anni a seguire: a differenza di tutti gli altri sovrani italiani, non revocò lo Statuto albertino, rinunciando a un potere di tipo assoluto, e ciò gli valse l’appellativo di re galantuomo. Così, per tutta quest’ultima fase preunitaria poté continuare quel processo riformatore in senso liberale iniziato già sotto Carlo Alberto: le leggi Siccardi (1850) furono un passo fondamentale nell’opera di laicizzazione dello Stato, mettendo fine agli antichi privilegi ecclesiastici nel Regno, e fu rafforzato il ruolo del Parlamento sull’esecutivo a discapito del re. In breve, il Piemonte divenne il punto di riferimento per tutte le forze liberali della penisola e ritrovo per gli esuli, grazie alle libertà garantite dallo Statuto: nella Torino degli anni ’50 fiorirono i caffè e i salotti, luoghi d’incontro e di discussione politico-culturale, di formazione dell’opinione pubblica e di una classe dirigente che sarebbe poi stata quella italiana.

Ma gli anni ’50, nel regno di Sardegna, portano il segno dell’azione di Camillo Cavour. La sua politica riformista e liberoscambista in breve tempo portò il Piemonte nel circuito della grande politica europea: la stipula di nuovi trattati commerciali, l’abolizione del dazio sul grano, l’imponente politica di opere pubbliche (strade, canali, ferrovie, rafforzamento del porto di Genova) e la ristrutturazione del sistema bancario furono tutti provvedimenti che ebbero grandi benefici sull’economia del Regno – favorendo la modernizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo industriale – e sul commercio internazionale, contribuendo a fare del Regno di Sardegna un avanguardia tra gli Stati italiani e l’unico tra essi a poter rivendicare, di fronte alle grandi potenze europee, un ruolo di primo piano nelle sorti della penisola. Grazie a questa immagine che si era costruita, rafforzata dalla partecipazione alla vittoriosa guerra di Crimea, e sicuramente grazie all’abilità di Cavour, il Piemonte riuscì a stringere la decisiva alleanza con Napoleone III nei famosi accordi di Plombières.

Così, all’alba del 1859, il Piemonte aveva tutte le carte in regola per mirare a espandersi in Italia: un solido stato delle finanze, un’economia in continua crescita, un governo ispirato a principi liberali e democratici, il consenso dell’opinione pubblica e il supporto dei patrioti, forti alleanze militari. La vittoria nella Seconda guerra d’indipendenza (1859), i moti rivoluzionari nel centro Italia e la spedizione vittoriosa di Garibaldi (1860), infine, portarono in dote ai Savoia anche gran parte della penisola. Il Regno di Sardegna era pronto per cessare di essere uno stato dinastico e diventare uno Stato nazionale.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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