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4 giugno 1911. L’inaugurazione del Vittoriano

Roma, 4 giugno 1911.

Già da qualche giorno, tra le vie della capitale, assieme ai suoi abitanti, serpeggia una strana carica di elettricità, di impazienza, di entusiasmo. Sempre più numerosi sono stati gli striscioni calati dalle finestre, appesi alle balaustre dei balconi, attaccati alle porte delle case che sorgono nelle vie del centro cittadino. Teli su cui è disegnata la faccia severa di Vittorio Emanuele II, il volto bonario di Cavour, Garibaldi in camicia rossa, il tricolore italiano con in mezzo il logo della Casa reale.

Ieri notte ha piovuto, molto. Chissà quanti hanno pensato fosse uno scherzo del destino, che avrebbe costretto a posticipare, o peggio avrebbe rovinato, l’evento clou dei festeggiamenti per il cinquantenario dell’Unità d’Italia. A 33 anni dall’approvazione della legge che ne consentiva la costruzione (16 maggio 1878) e a 26 dalla posa della prima pietra (22 marzo 1885), finalmente era arrivato il momento dell’inaugurazione del monumento celebrativo a Vittorio Emanuele II, il Vittoriano.

La gente non si è fatta spaventare dal diluvio. Per tutta la notte affolla via del Corso, si ferma dai vari ambulanti che vendono cartoline, coccarde, emblemi nazionali. Anche piazza Venezia – il cui ampliamento, incluso nel progetto di costruzione del Vittoriano ed eseguito tra 1900 e 1906, aveva cancellato lo storico palazzo Torlonia e stravolto la fisionomia delle strade e dei quartieri circostanti – ha visto tutta la notte i romani passeggiare, occupare i posti migliori da cui assistere alle celebrazioni dell’indomani o, semplicemente, passare di lì per imprimere nella memoria un momento storico. Ugo Ojetti, prestigiosa firma del «Corriere della Sera», ha scritto che «la vita cittadina non [ha] subito nessuna sospensione da ieri a stamattina».

Il programma dello svolgimento delle celebrazioni è molto serrato. Pioggia permettendo, si inizierà di prima mattina con la sfilata dei veterani e dei militari e, a seguire, con il corteo dei sindaci. Alle 9, momento solenne, arriveranno i Reali e, una volta che tutti avranno preso posto, si potrà procedere a scoprire la maestosa statua equestre di Vittorio Emanuele II. A seguire, il Presidente del Consiglio, Giolitti, terrà un discorso e, infine, il rompete le righe: ognuno a casa propria, compresi i Reali, che torneranno al Quirinale.

Alle prime luci del mattino la pioggia, magicamente, smette di scendere copiosa, il cielo si rasserena e il sole inizia a scaldare l’aria romana. Tutto può procedere come pianificato.

Alle 7.45 le manifestazioni iniziano. Ad aprire il corteo c’è un bersagliere in alta uniforme, che porta la bandiera; lo seguono i veterani, i reduci delle guerre risorgimentali, i garibaldini, che mostrano con orgoglio la camicia rossa le medaglie ottenute. Sfilano in mezzo a una folla festante che applaude, grida, sventola le bandiere o il fazzoletto, si toglie il berretto agitandolo sopra la testa. È poi il turno delle bandiere del Regio Esercito e della Marina, precedute dalla fanfara suonata dai carabinieri. Arrivati al monumento, si dispongono tutti nell’ordine prestabilito: le bandiere della fanteria a destra e a sinistra sui gradini dell’Altare della Patria e le bandiere delle armi e dei corpi speciali, insieme ai veterani, sotto la statua equestre, che è ancora coperta da un grande telo bianco.

Intanto, alle 8, è partito dal Campidoglio il corteo dei sindaci dei comuni italiani. Sono più di 6.000, preceduti da due drappelli, uno di guardie municipali a cavallo e uno di vigili in alta uniforme. Scendono la cordonata capitolina e virano a destra, costeggiando il lato sinistro del maestoso sommoportico in marmo botticino che costituisce lo sfondo della statua di Vittorio Emanuele II e dell’Altare della Patria. Tra i sindaci, particolare clamore desta la presenza di don Giulio Paolucci, il prete-sindaco di Goriano Sicoli, in provincia dell’Aquila.

Il sommoportico, tra l’altro, che già nel progetto iniziale dell’architetto Giuseppe Sacconi aveva enormi dimensioni (90 metri di lunghezza), era stato allungato (114 metri) e incurvato dopo i primi scavi, che avevano portato alla luce un tratto delle antiche mura serviane – assieme ai resti di un mammuth – e, soprattutto, avevano mostrato i limiti del terreno: invece del tufo, gli scavi mostrarono un terreno argilloso, banchi di sabbia e la presenza di caverne, cunicoli, cave, che obbligarono l’architetto a costruire rinforzi. È a seguito di questa modifica in grandezza che il progetto cambiò radicalmente, sia dal punto di vista architettonico che di concetto: il Vittoriano, che nei progetti di Sacconi doveva essere uno dei tanti edifici presenti in questa piazza, assunse una predominanza assoluta, e si rese quindi necessario intervenire anche in tutta la zona attorno, radendo al suolo buona parte di quel quartiere storico di Roma. Inoltre, la scoperta delle gallerie sotterranee fu di ispirazione a Sacconi, che decise di introdurre degli spazi all’interno del monumento riutilizzando quei cunicoli: sono quelli che, nei decenni successivi, avrebbero ospitato il Museo del Risorgimento, il Sacrario delle Bandiere e la cripta del Milite Ignoto.

Il corteo dei sindaci prosegue verso piazza Venezia, passa in mezzo alle persone in giubilo e si ferma sotto i due enormi gruppi scultorei del Pensiero di Giuseppe Monteverde e dell’Azione di Francesco Jerace – quest’ultimo, però, era solo il bozzetto; Jerace consegnerà la statua l’anno successivo. In tutto, la sfilata è durata tre quarti d’ora e ha riempito il monumento, che conta adesso circa 20.000 persone: uno specchio di piazza Venezia, dove il pubblico intona inni patriottici, sventola le bandiere tricolore, applaude. Tra esso, ci sono anche circa 3.000 studenti delle scuole di Roma e del circondario. Tutto è pronto per il momento solenne, l’arrivo dei sovrani.

Momento che arriva alle 9 in punto: precedute dalle note della fanfara reale, arrivano le cinque auto che conducono al monumento la famiglia reale. Nella prima auto ci sono il re Vittorio Emanuele III, la moglie Elena, il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto e il giovanissimo erede al trono, Umberto, di sette anni. Segue la vettura che più ha attirato l’attenzione e la curiosità delle persone presenti, quella dove siedono la Regina madre Margherita di Savoia, moglie di re Umberto I assassinato nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci; la sessantaquattrenne Maria Pia, regina di Portogallo e seconda figlia di femmina di Vittorio Emanuele II – la primogenita, Maria Clotilde, restò a Moncalieri, dove morì tre settimane dopo – e le due principessine, Iolanda e Mafalda, che indossano graziosi vestiti di seta azzurra ricamati in pizzo bianco. Le altre auto portano alla manifestazione il restante della famiglia reale: la moglie e i figli di Emanuele Filiberto, i vari duchi, conti e principi delle città e delle regioni italiane.

Arrivati al monumento, tra gli scrosci di applausi, le grida di evviva, lo sventolio delle bandiere, il primo a scendere dall’auto è il piccolo Umberto, vestito da marinaio, che si dirige festoso alla seconda auto, apre le portiere e porge la mano alle sorelle, facendole scendere. I tre raggiungono i genitori, Vittorio Emanuele III e la regina Elena, e salgono la scalinata, andandosi a posizionare sotto l’Altare della Patria, accolti dal Presidente del Consiglio Giolitti e dai presidenti della Camera, Giuseppe Marcora, e del Senato, Giuseppe Manfredi.

Quando tutta la famiglia reale è seduta sulle due file di poltrone loro riservate, arriva finalmente il momento centrale delle celebrazioni. Al segnale del re, viene fatta cadere la tela che ricopre la  statua equestre in bronzo del primo re d’Italia e il basamento monumentale in marmo, dove sono scolpite le personificazioni allegoriche delle quattordici città “nobili” d’Italia, le capitali dei Regni preunitari e delle repubbliche marinare: Torino, Venezia, Palermo, Mantova, Urbino, Napoli, Genova, Milano, Bologna, Ravenna, Pisa, Amalfi, Ferrara, Firenze. La folla che riempie piazza Venezia fino a via del Corso esplode in “urrà”, “evviva Vittorio Emanuele”; gli occhi si riempiono di lacrime di commozione, di orgoglio, di gioia. Ma in un attimo cala il silenzio, l’aria si carica di attesa: un lembo del telo resta imbrigliato nell’orecchio del cavallo. Un operaio sale velocemente e si attacca al lenzuolo, mettendo a rischio la propria incolumità, e libera definitivamente la statua. L’applauso sale ora ancora più forte di prima, e introduce il discorso ufficiale d’inaugurazione dell’onorevole Giolitti: un discorso toccante, carico di suggestioni dall’antica Roma, di spirito patriottico e nazionalistico, dei racconti delle grandi gesta del «Padre della Patria». Un discorso che, però, è anche un manifesto programmatico della politica giolittiana dei mesi a venire, in particolare lasciando intendere, e nemmeno troppo velatamente, l’imminente guerra in Libia e la creazione di un Impero.

«Maestà! Ora che si compie il cinquantennio del grande avvenimento è con animo lieto che noi possiamo volgere indietro lo sguardo e ricordare il cammino che l’Italia risorta ha percorso in ogni ramo di civile progresso e nella estimazione del mondo e possiamo guardare con sicura fede all’avvenire della nostra patria […]. In questo giorno solenne in mezzo ai gloriosi ricordi della nostra storia, più profondamente vibra il sentimento del popolo italiano, il quale vuole che al di sopra di tutte le minori questioni si guardi ai grandi interessi della patria affine di renderla sempre più prospera e grande, sempre più apprezzata e amata da tutti i popoli civili. Questi, o Sire, i sentimenti del popolo festante che entusiasticamente vi acclama, riconoscendo nella Maestà Vostra e nell’augusta Casa di Savoia il simbolo dell’unità della Patria, il palladio della sua indipendenza e della sua libertà, la sicura guida verso i suoi alti destini».

Nella commozione generale, al suono della campana del Campidoglio, il re si alza e passa in rassegna tutti i presenti, militari e sindaci, e poi si riunisce al corteo reale di rientro al Quirinale. La cerimonia ufficiale è finita. Il cielo, che tanto minaccioso era stato nella notte, è ora radioso, libero e sereno: un trionfo di luce che incornicia una storica, splendida giornata di fine primavera romana.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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