Alla fine, come si era prefissato, il governo, per il nuovo anno, è riuscito a ristrutturare il Bonus cultura introdotto da Renzi nel 2016. L’ha fatto sia nei fondi stanziati (190 milioni invece dei 230 milioni utilizzati fino a oggi), sia nell’impianto complessivo della misura.
Da quando è stata creata, infatti, la “18App” si è rivolta a tutti i ragazzi che entravano nella maggiore età. Chi, ad esempio, ha compiuto 18 anni nel 2021, ha potuto usufruire di 500 euro per acquistare biglietti per cinema, teatri, concerti, musei, mostre ed eventi culturali in generale; libri, cd, vinili e dvd; corsi di musica, teatro, lingua straniera; abbonamenti a quotidiani e periodici, sia cartacei che online. Insomma, solo per il fatto di essere diventati maggiorenni, e dunque cittadini attivi a tutti gli effetti, lo Stato si è fatto carico, in parte, della loro formazione culturale. Come a dire: bene, ora che fate pienamente parte della comunità nazionale, perché lavorerete, verserete i contributi, voterete, io, Stato, vi fornisco i mezzi per aiutarvi ad esercitare al meglio questi vostri diritti/doveri.
Un dettame in linea con quanto stabilisce la nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
La “Carta Cultura Giovani” e la “Carta del Merito”
Il nuovo esecutivo ha scelto, invece, di limitare la fruizione del bonus cultura. Dall’anno prossimo, infatti, potranno accedere ai 500 euro soltanto i maggiorenni che abbiano un Isee familiare inferiore ai 35.000 euro o che abbiano preso 100/100 alla maturità. Se si rientra in entrambe le categorie, il bonus raddoppia: 1000 euro, perchè i due da 500 euro sono cumulabili.
Ma non solo. Per rendere più chiaro il proprio indirizzo politico, il governo ha deciso anche di cambiarne il nome. Non sarà più, appunto, bonus cultura né 18App, ma “Carta Cultura Giovani” quella destinata a chi non supera la soglia Isee prefissata e “Carta del Merito” quella riservata ai diplomati con il massimo dei voti.
«Con queste misure diamo valore al merito e mettiamo in campo un sistema equo per rendere più accessibile la cultura ai giovani», ha spiegato Giorgia Meloni. Ma è davvero così?
La cultura non è per tutti
No, ovviamente non è così. Come già su altri temi toccati in soli tre mesi dalle elezioni, le parole con cui sono stati presentati e spiegati alcuni provvedimenti non corrispondono al loro reale effetto. Insomma, questa spiegazione è, in parte, falsa.
«Con queste misure diamo valore al merito». Si, è vero, ma quale “merito”? La polemica è aperta da quando il governo ha deciso di cambiare il nome del Ministero dell’Istruzione, aggiungendovi la dicitura “del Merito”. Così facendo, il centro-destra ha esplicitato, ancora una volta, che la sua concezione di istruzione e di cultura è ferma alla prima metà del secolo scorso, quando l’istruzione era estremamente rigida ed elitaria e i licei e le università erano riservati alla futura classe dirigente: i figli dei ricchi, coloro che “meritavano” di entrare a farvi parte perché possedevano i mezzi per accedervi. Precisazione importante: i mezzi a cui ci riferiamo sono quelli di partenza, quelli economici e, di conseguenza, culturali.
La Repubblica e il Sessantotto hanno poi spazzato via – la prima con molta lentezza, la seconda in modo dirompente – questa impostazione, lasciando che se ne imponesse un’altra, più egualitaria, sancita proprio dall’articolo 3 della Costituzione richiamato prima.
È questo il “merito” cui si richiama il governo. Perché affermiamo ciò? Perché in Italia le disparità nel mondo dell’istruzione sono fortissime: tra Nord e Sud, tra città grandi e centrali e città piccole e marginali, tra centro città e periferia. Fare le scuole pubbliche nel centro di Milano non è la stessa cosa che farle a Rhò. Così come farle a Milano non è la stessa cosa che farle a Palermo, a Reggio Calabria o a Napoli. Le scuole pubbliche migliori si trovano nei centri città. Sono quelle più ambite, da studenti e docenti. Propongono attività formative costose. E si rivolgono a chi nei centri ci vive: i ceti medio-alti. È raro che chi, a Torino, abita a Mirafiori, in Barriera di Milano o a Falchera frequenti una scuola nella centralissima piazza Vittorio.
Perché è oneroso. Sotto ogni punto di vista. Non solo quelli legati più specificamente alle attività scolastiche (libri, laboratori, visite a musei, gite), ma anche il tempo e i mezzi per accompagnare i figli a scuola, o acquistare gli abbonamenti ai mezzi pubblici. Certo, formalmente a tutti i ragazzi è permesso iscriversi ovunque, ma di fatto non è così: i limiti contro cui una famiglia si scontra sono molti, e spesso insuperabili.
Ed è chiaro che chi può ricevere un’istruzione migliore, perché nelle scuole prestigiose lavorano insegnanti più preparati, perché le attività previste sono più funzionali, più interessanti, più formative, sarà avvantaggiato. Ecco, allora, che il merito diventa qualcosa di estremamente ineguale, perché le condizioni di partenza e il livello di istruzione non è uguale per tutti.
La cultura è un premio?
Istituire criteri di “merito” per accedere a fondi governativi ha un secondo, drammatico aspetto da tenere in considerazione. Significa far diventare la cultura un premio. Ma la cultura non è un premio: dev’essere universale, fruibile e accessibile a tutti, nonostante le condizioni di partenza.
In questo modo, inoltre, si permette che si insinui nel pensiero comune un altro principio. Se si equipara la cultura a un premio, significa che per raggiungerlo bisogna “vincere” una competizione, bisogna lottare e combattere contro gli altri per raggiungere un obiettivo. La competizione sociale pertiene profondamente alla realtà contemporanea, al capitalismo; sostiene l’individualismo di cui è permeato il mondo contemporaneo. La competizione sociale, contro tutto e tutti, è, fondamentalmente, causa di solitudine e di infelicità.
Ecco, chi scrive crede invece che la cultura sia, e debba essere inclusione, condivisione, integrazione. La cultura non è individuale, è collettiva. E deve aiutare a combattere, ad andare oltre, al grande male dell’età contemporanea – un male che, già a metà Ottocento, aveva individuato il grande politologo Alexis de Tocqueville –, proprio l’individualismo. La cultura deve educare a questi valori. In questo modo, invece, viene piegata a sostenere l’esatto opposto.
Ecco che quello basato sul merito non è un «sistema equo», non rende «più accessibile la cultura ai giovani». Non a tutti, almeno. Solo a una parte: a chi ha più risorse – economiche, sociali – di partenza; a chi ha ricevuto un’istruzione migliore; a chi ha la fortuna essere cresciuto in un ambiente intellettualmente più attivo.
La cultura, in questo modo, diventa non integrazione sociale, ma conservazione sociale. E non è questo che dovrebbe essere.