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La denatalità e la cultura maschilista dell’Italia

In Italia, il problema non è la “sostituzione etnica”, ma la cultura maschilista e patriarcale che ancora relega la donna alla cura della casa e dei figli

Eccolo. Uno dei grandi cavalli di battaglia della destra conservatrice è tornato con prepotenza sulla scena pubblica. In questi giorni convulsi, in cui il tema dell’immigrazione sta monopolizzando il dibattito politico, martedì, quasi in contemporanea, la premier Giorgia Meloni e suo cognato, il ministro Lollobrigida, hanno rilanciato il discorso sulla (de)natalità in Italia, legandolo strettamente proprio a quello sull’immigrazione e sulla necessità di manodopera. Il Decreto flussi, per quest’anno, ha fissato a 82.705 la quota di ingressi regolari per motivi di lavoro, stagionale (44.000) e non stagionale (38.705). Una cifra che diverse associazioni ritengono non sufficiente – secondo Coldiretti, per il solo settore primario servirebbero 100.000 lavoratori.

Ma il governo italiano non è dello stesso parere. Meloni propone ricette diverse, e lo fa dal palco del Salone del Mobile di Milano: aumento del lavoro femminile e investimenti sulla natalità. Si è spinto un po’ più in là il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, al congresso nazionale della Cisal, la Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori: incentivare il welfare e sostenere l’occupazione delle giovani coppie per non «arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro».

Il ricorso del ministro a questa teoria complottista è sintomatico. Non solo di come strampalate teorie che non hanno basi scientifiche rischino di indirizzare non il comportamento di singoli individui, ma le politiche di uno Stato. Ma anche del modo semplicistico in cui questo governo affronta alcuni seri problemi del Paese.

L’Italia è un Paese maschilista

Non c’è dubbio che alcuni dei temi toccati dai due ministri siano nodi cruciali per il futuro dell’Italia. In quanto a occupazione femminile, secondo i dati Eurostat, l’Italia è penultima in Europa, con appena il 49,4% di donne tra i 15 e i 64 anni occupate – a fronte di una media europea del 63,4% –, e i dati sulla natalità dell’Istat (Dinamica-demografica2022) sono preoccupanti – nel 2022 ci sono state meno di 400.000 nascite.

Ciò che Meloni dimentica di dire è che il problema è ben più profondo. E per comprenderlo, basta chiedersi il perché di questi dati.

Perché l’occupazione femminile è così bassa in Italia? Le risposte sono tante, e strettamente intrecciate tra loro. Ma la base comune è che la società italiana è ancora fortemente maschilista. Ovvero, dà per scontato che il ruolo primario dell’uomo sia di lavorare e quello della donna di prendersi cura della casa e dei figli.

Non si tratta di retorica o di un cliché. Questo modello culturale ha infatti immediati riscontri e ricadute in ambito lavorativo. A partire dalle retribuzioni, che in media sono inferiori per le donne. E più complicata è anche la strada per realizzarsi in ambito lavorativo, visto a occupare posizioni di rilievo sono in maggioranza uomini. Ma anche superando questi ostacoli discriminanti, la carenza di servizi quali gli asili nido (qui spiegata da Domani) – al cui potenziamento sarebbe destinata parte dei fondi del Pnrr – costringe le donne a dover scegliere tra lavoro e famiglia.

Ma in maniera subdola, perché solo a patto di enormi sacrifici è possibile per una madre conciliare vita lavorativa e maternità. Mentre le donne che scelgono di non diventare madri sono ancora fortemente stigmatizzate.

Se si vuole davvero trovare una soluzione al problema della natalità – ed è opinabile che la denatalità sia un problema – non bisogna chiamare in causa teorie complottiste come la “sostituzione etnica”, ma immaginare un sistema diverso. Che non obblighi la donna a scegliere – per poi stupirsi e stigmatizzarla se sceglie la realizzazione in ambito lavorativo –, bensì che faciliti la coesistenza tra lavoro e vita familiare. Un sistema che passi anche da un cambiamento culturale, in cui l’uomo non sia visto esclusivamente come capofamiglia e fonte del reddito familiare, ma anche come padre che condivide con la donna il ruolo di cura della casa e dei figli.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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