Nascere, crescere, vivere, morire. È il ciclo della vita. E il 5 gennaio è una data che, per il movimento antimafia, condensa tutte le sue fasi.
Peppino Impastato e Pippo Fava non condividono solo il nome, Giuseppe. Sono stati entrambi brillanti intellettuali. Hanno dedicato la loro vita a denunciare la mafia e i traffici illeciti mafiosi nelle rispettive città: Cinisi di Peppino, e Catania, città d’adozione di Fava. Hanno fatto con coraggio nomi e cognomi di chi accusavano. In una Sicilia in cui, si diceva, la mafia non esisteva.
Il ciclo della vita. Peppino Impastato, il 5 gennaio 1948, nasceva a Cinisi. Pippo Fava, il 5 gennaio 1984, un giovedì sera, veniva raggiunto da cinque colpi di pistola alla nuca mentre era in auto. Era da poco uscito dalla sede del giornale che aveva fondato e che dirigeva, “I Siciliani”.
Entrambi hanno pagato per la loro attività di opposizione alla mafia. Peppino, dalla sua “Radio Aut”, derideva e assieme denunciava le attività di “Don Tano seduto”, il “grande capo” di “Mafiopoli”. Un riferimento non velato a Gaetano “Tano” Badalamenti, il boss di Cinisi ed esponente di spicco di Cosa Nostra in Sicilia. Il corpo senza vita di Peppino fu trovato la mattina del 9 maggio 1978, sui binari nei pressi della stazione di Cinisi.
Pippo Fava, dalle colonne del suo giornale, diceva che la mafia, a Catania, esisteva eccome. E che non era una questione di pizzo, di piccola delinquenza. A Catania, la mafia faceva affari con imprenditori e politici. Fava non aveva paura a scrivere nomi e cognomi degli imprenditori collusi con Benedetto “Nitto” Santapaola, il boss mafioso del capoluogo etneo.
Entrambi sono stati uccisi non una, ma due volte. Di Peppino si disse a lungo che era morto mentre faceva saltare i binari. D’altronde, erano gli anni di piombo, e lui era stato membro di Lotta continua, uno dei gruppi della sinistra extraparlamentare che era stato protagonista negli anni precedenti. Per uno strano scherzo del destino, la mattina di quel 9 maggio 1978, un attentato fu compiuto davvero dell’estremismo rosso: Aldo Moro veniva rapito, in via Fani, dalle Brigate Rosse. Tramontata la pista dell’attentato, si disse che Peppino si era suicidato. Anche se gli indizi erano chiari, e portavano a un’altra conclusione.
Di Pippo Fava, invece, la polizia e i giornali dissero che fu vittima di un delitto passionale; poi, che il movente era da cercare nelle difficoltà economiche della sua rivista.
Entrambi sono vittime della mafia. Nel 1984 una sentenza firmata da Antonino Caponnetto riconosceva la matrice mafiosa dell’omicidio di Peppino Impastato, ma i colpevoli rimasero ignoti. Fino al 2002, quando Badalamenti fu riconosciuto colpevole di essere il mandante del delitto e fu condannato all’ergastolo.
Nel 1998, il tribunale di Catania incriminava Santapaola come mandante dell’omicidio di Pippo Fava. Sentenza confermata dalla Corte di Cassazione nel 2003. Aveva ragione lui. La mafia, a Catania, esisteva eccome.
Entrambi sono e rimarranno simboli della lotta alla mafia, esponenti della parte migliore del movimento antimafia. Esempi per le generazioni future.
Il ciclo della vita. Quando un frutto cade dall’albero, lentamente muore. Ma, morendo, libera i propri semi. Sprigiona una potenziale nuova vita. Ecco, Peppino Impastato e Pippo Fava sono andati oltre il ciclo della vita. Li hanno uccisi, ma non si sono accorti che erano semi. Semi che hanno germogliato, e continuano a vivere. Sempre.