L’Italia non usufruirà mai del Mes, «lo posso firmare col sangue». È stata tranchant Giorgia Meloni, intervistata da Bruno Vespa, in merito alla questione del Mes, tornata alla ribalta all’inizio del dicembre scorso, dopo che la Corte Costituzionale tedesca si è espressa con favore nei confronti della riforma del fondo salva-Stati, preludio alla ratifica da parte della Germania. L’Italia, così, rimarrebbe l’unico Paese a non firmare la riforma, bloccandone l’entrata in vigore e la possibilità, da parte degli altri Paesi membri, di accedervi. E se Meloni non ha intenzione di permettere all’Italia di accedere ai fondi messi a disposizione dal Mes, bisogna però dire che ratificare la riforma non significa accedere ai fondi.
Ma che cos’è il Mes? E perché il governo italiano è così ostile?
Cos’è il Mes?
Il Meccanismo europeo di stabilità, meglio conosciuto come Mes, formalmente è un’impresa pubblica, con sede a Lussemburgo, i cui soci sono nient’altro che i Paesi membri dell’area euro, e il cui obiettivo è dare aiuto finanziario agli stessi Stati che vi aderiscono.
Il Mes è nato nel 2011 per sostituire i due programmi di finanziamento provvisori dell’Unione europea – lo Strumento europeo di stabilità finanziaria e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria – che avevano permesso di salvare dalla bancarotta Grecia, Irlanda e Portogallo. Una situazione drammatica all’interno dell’eurozona, che aveva rischiato di colpire anche l’Italia e la Spagna.
Proprio l’Italia, all’epoca guidata da Silvio Berlusconi, chiese a gran voce l’istituzione di uno strumento permanente, e non provvisorio, che fosse in grado di entrare in azione e aiutare gli Stati a rischio di default con prestiti, anche ingenti, per evitare la bancarotta.
Ed è esattamente a questo che serve il Mes. Avendo a disposizione un capitale di oltre 700 miliardi di euro (l’Italia ne garantisce circa il 18% e finora ha versato 14 miliardi al fondo), il Mes può intervenire, esclusivamente dietro richiesta dello Stato che ne ha bisogno, in due modi: emettendo prestiti o acquistando titoli sul mercato. Questo solo a fronte di rigide condizioni, pattuite con il Paese richiedente in memorandum d’intesa (i Memorandum of Understanding): riforme, tagli al debito, indirizzi di politica macroeconomica. Misure, cioè, che influenzano le scelte di politica nazionale dei governi dei Paesi richiedenti. Di fatto, usufruendo dei fondi del Mes, i Paesi richiedenti si impegnano a concordare con gli altri Stati le proprie linee di politica economica – rinunciando, o meglio condividendo con essi parte della propria sovranità – in cambio dell’aiuto economico per evitare l’insolvenza.
La riforma del Mes
Il Mes, però, non ha solo pregi. Da molto tempo, voci concordi ritengono che sia uno strumento da riformare, e in particolare non ha mai convinto appieno la sua natura di impresa, di organizzazione internazionale al di fuori della cornice istituzionale dell’Unione europea. Inoltre, molte sono state le critiche e le richieste di riforme da parte dei Paesi “virtuosi”, quelli che hanno conti pubblici sani, per i quali usufruire dei fondi del Mes resterebbe una lontana ipotesi. A differenza dei Paesi del Sud Europa, che hanno conti pubblici non in ordine e sono maggiormente in balia dei mercati finanziari e a maggiore rischio di speculazione – per l’Italia, che a ottobre aveva un debito pubblico di 2.771 miliardi di euro, era scoppiata la paura della speculazione finanziaria a fine agosto, quando cadde il governo Draghi.
Dopo lunghe trattative, nel gennaio 2021 i diciannove Paesi che hanno adottato la moneta unica europea si sono messi d’accordo e hanno approvato le modifiche al Mes. Le riforme sono, in sostanza, due, ma molto importanti.
La prima è la partecipazione del Mes al salvataggio delle banche di interesse europeo attraverso il “backstop” al Fondo unico di risoluzione delle banche in via di creazione. Se quest’ultimo, le cui risorse sono versate dalle banche europee di grandi dimensioni – ma che, al momento, non dispone ancora di tutti i fondi perché le banche hanno da poco iniziato a versare i propri contributi –, non riuscisse a coprire le necessità di una delle stesse banche per arrivare a una «risoluzione» (leggasi salvataggio) ordinata, potrebbe intervenire il Mes a colmare il gap, funzionando dunque da ultimo paracadute. Il Fondo, da parte sua, si impegnerebbe a ripagare il debito al Mes.
La seconda riforma, invece, riguarda le modalità con cui verrà ristrutturato il debito degli Stati a rischio default. Innanzitutto, viene modificato il meccanismo – da voto doppio a voto unico – con cui i creditori di uno Stato approvano o meno la proposta di ristrutturazione del debito dello Stato stesso, in modo da evitare i rischi di speculazione e di aumento della probabilità del “fallimento” dello Stato, con tutte le ricadute del caso sui cittadini – pensioni, stipendi, sussidi. Poi, l’intervento del Mes viene subordinato alla decurtazione del valore dei titoli del debito pubblico (“haircut”) e a un’analisi della sostenibilità del debito, cioè della capacità dello Stato di ripagarlo; analisi che sarà condotta sia dalla Commissione europea che dal Mes stesso.
Infine, vengono istituite due linee di credito a cui possono accedere i Paesi a rischio: la “Precautionary Conditioned Credit Line” e la “Enhanced Conditions Credit Line”. Anche in questo caso, sono previste delle condizioni per ricevere i fondi: ad esempio, per ricevere il Mes sanitario di cui ha parlato Carlo Calenda a «Repubblica», la condizione è di spendere i soldi ricevuti per la salute pubblica.
Il rifiuto di approvare la riforma del Mes è pura ideologia
Bisogna ricordare che ratificare la riforma del Mes non implica accedere ai finanziamenti. E, soprattutto, che richiedere i fondi – utilizziamo ancora l’esempio del Mes sanitario – non implica ristrutturare il proprio debito. Insomma, se l’Italia finalmente approvasse la riforma, per lei non cambierebbe nulla. Per questo, risulta inspiegabile la netta presa di posizione della premier. O meglio, è inspiegabile al netto delle ideologie di cui la destra italiana si è fatta portatrice: critica verso l’Unione europea, verso la moneta unica, sovranista.
Dalla mancata approvazione del Mes, l’Italia avrebbe solo da perdere. Innanzitutto, minerebbe la sua posizione all’interno dell’Unione: non dimentichiamo che l’Italia è uno dei Paesi fondatori dell’Ue e una delle sue economie più importanti, e mettere i bastoni tra le ruote a qualunque tipo di intervento che metta in pratica la solidarietà tra i Paesi dell’Unione significa indebolire l’Unione e l’Italia stessa. Poi, smentirebbe la linea europeista che Meloni ha dichiarato intende seguire – ma non sarebbe la prima giravolta del suo governo. Terzo, come già ricordavamo, l’Italia ha un debito pubblico molto alto, uno dei maggiori in Europa. Nonostante le dichiarazioni di Meloni, se fosse a serio rischio di default, il Paese sarebbe praticamente obbligato a usufruire dei fondi del Mes. Ratificare questa riforma significa rendere operativi importanti correttivi, di cui l’Italia potrebbe beneficiare. Infine, bloccarne l’attuazione significa mettere potenzialmente in difficoltà gli altri Paesi comunitari senza una reale motivo, se non quello ideologico dell’euroscetticismo, del sovranismo, dell’egoismo nazionale.
Approvare la riforma non costa niente. E, se ad avere bisogno della solidarietà europea fossimo noi, fare ostruzionismo è una scelta che potremmo pagare a caro prezzo.