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Lo sciopero dei benzinai è finito. E, forse, ha insegnato a tutti qualcosa.

Al centro dello scontro politico tra governo e sindacati, dopo un duro braccio di ferro, lo sciopero dei benzinai è terminato, con 24 ore di anticipo. Nei giorni scorsi il governo ha più volte chiamato i sindacati a sedersi attorno a un tavolo, ma i tentativi di convincerli a mettere fine allo sciopero erano andati a vuoto. Fino a ieri mattina. Cosa è cambiato? Ripercorriamo i passi della protesta per capirlo.

Alla fine, il governo l’ha spuntata. Dopo giorni di appelli, trattative, proposte e 12 ore di sciopero, è riuscito a convincere i sindacati dei benzinai a interrompere lo sciopero. O forse no. In una nota congiunta Fegica Cisl e Figisc/Anisa annunciano lo stop allo sciopero, ma precisano che è una decisione presa «non certo per il governo», ma per «i cittadini italiani», che «hanno perfettamente capito». Ma capito cosa?

Il decreto trasparenza

Facciamo un passo indietro. La bufera è scoppiata una quindicina di giorni fa. Nella legge di bilancio, il governo ha deciso di non prorogare lo sconto che il governo Draghi aveva applicato alle accise sui carburanti. Così, dal 2 gennaio, il prezzo di benzina e diesel alla pompa di benzina è di nuovo schizzato in alto: un rincaro di 20 centesimi circa al litro, che in questi giorni continua ad aumentare.

Una scelta politica. Che presenta anche i suoi lati positivi, come abbiamo già fatto notare. Ma che ha lasciato scontenti gli italiani, già alle prese con il caro energia e l’aumento dei prezzi del carrello della spesa. Il problema è sorto quando, dall’esecutivo, è stata addossata la responsabilità degli aumenti ai benzinai, accusati di speculare sul costo del carburante. Ed è stato varato in fretta e furia un Decreto trasparenza (dl 14 gennaio 2023, n.5) che obbliga gli esercenti ad esporre il prezzo medio regionale del carburante, in base ai dati forniti dal Ministero delle Imprese. Particolarmente pesanti le sanzioni: da 500 a 6.000 euro per chi non li avesse esposti e, dopo la terza violazione, chiusura dell’attività da un minimo di sette giorni a un massimo di novanta.

Le proteste dei sindacati di e il lancio dello sciopero

I sindacati di categoria sono subito insorti. Bruno Bearzi, presidente della Figisc/Anisa (Federazione italiana gestori impianti stradali carburanti), in un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera», ha parlato esplicitamente di «capro espiatorio» e ha invitato il governo a prendersi «le proprie responsabilità».

Così Faib, Figisc e Fegica, che coprono più del 70% dei distributori sindacalizzati, hanno proclamato uno sciopero di due giorni, dalle 19 del 24 gennaio alle 19 del 26 gennaio – sulla rete ordinaria, mentre sulle autostrade l’inizio del blocco era previsto tre ore dopo. A nulla è valsa la spiegazione di Meloni sui suoi canali social della decisione presa in merito alle accise – sarebbero costate un miliardo di euro al mese, cifra che il governo non ha stanziato. E nemmeno i tentativi del ministro delle Imprese, Alberto Urso, di farlo rientrare, proponendo una modifica al decreto-legge. Perché ciò che è grave – così si legge su un volantino firmato dalle tre sigle – è «la vergognosa campagna diffamatoria nei confronti della categoria», ancor più degli «inefficaci provvedimenti del governo che continuano a penalizzare solo i gestori senza tutelare i consumatori».

Come si è arrivati alla riduzione dello sciopero?

Le trattative tra esecutivo e sindacati sono state serrate. E hanno subito battute d’arresto anche a causa di alcune esternazioni. Se, da un lato, le sanzioni sono state effettivamente diminuite – il 25 gennaio è stato raggiunto un accordo per abbassare le multe a un massimo di 800 euro –, dall’altro non hanno giovato le parole dello stesso ministro Urso, che ha parlato di «zone d’ombra» che danneggiano i lavoratori onesti, e nemmeno quelle della Meloni, che da Algeri ha ribadito la sua fermezza sul provvedimento.

Ma, appunto, la questione non è nel merito del provvedimento. Lo stesso Bearzi ha ammesso che esistono «irregolarità legate a segnalazioni errate sui cartelli» o «mancate comunicazioni settimanali all’Osservatorio delle variazioni dei prezzi», e auspica maggiori controlli. Ciò che ha fatto insorgere i sindacati è la criminalizzazione della categoria, l’essere stati consegnati in pasto alla popolazione come i responsabili dell’aumento dei prezzi alla pompa di benzina. Solo la Faib si è detta soddisfatta dei colloqui con il ministero, e ha annunciato che avrebbe ridotto lo sciopero a sole 24 ore.

Così, alle 19 di martedì, lo sciopero è partito, e ha coinvolto anche i self-service. Creando enormi disagi per i cittadini. Nonostante non tutti i benzinai fossero chiusi – una quota di distributori è obbligata per legge a restare aperta poiché sono considerati un servizio essenziale. Poco prima il ministro Urso aveva lanciato un ultimo appello, caduto però nel vuoto.

Poi, nel pomeriggio di ieri, mercoledì 25 gennaio, un incontro tra i sindacati e il ministro Urso ha sbloccato la situazione. Poco dopo, Fegica e Figisc/Anisa, con la nota sopracitata, hanno annunciato anch’essi la revoca del secondo giorno di sciopero. E non per merito del governo, le cui proposte «non rimuovono l’intenzione manifesta di individuare i benzinai come i destinatari di adempimenti confusi, controproducenti oltreché chiaramente accusatori».

Ciò che ha indotto le firme a fermare lo sciopero è stata l’opinione pubblica. Che ha dimostrato di «aver capito», di aver saputo individuare le effettive responsabilità del governo nonostante i tentativi di addossarle ad altri. E infatti, la nota sottolinea che «uno degli obiettivi fondamentali, vale a dire ristabilire la verità dopo le accuse false e scomposte verso una categoria di lavoratori, è stato abbondantemente raggiunto».

Ora, si spera, che non ci sia più bisogno di «ristabilire verità», che questa vicenda abbia insegnato a tutti qualcosa. Ai sindacati, che il loro ruolo di mediazione tra le istanze dei lavoratori e il governo è fondamentale, che, con la loro attività di pressione, ancora oggi possono impattare profondamente sulla realtà; ai cittadini, a non credere ciecamente a ciò che la politica racconta.

E alla politica la trasparenza. La stessa che ha chiesto ai benzinai.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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