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Le origini della mafia in Sicilia. Le cosche e il «manutengolismo»

Quinto e ultimo appuntamento della rubrica sulle origini della mafia in Sicilia. Oggi chiudiamo il cerchio, mostrando uno dei caratteri originari del fenomeno mafioso: il collegamento, spesso consenziente, con le classi superiori, e dunque con la classe politica.

Al quadro generale che si è tentato di disegnare nei contributi qui presentati manca l’ultimo, essenziale elemento che traccia una netta linea tra criminalità organizzata e organizzazioni mafiose: lo scambio di favori con la classe dirigente.

Contemporaneamente a quei fermenti rivoluzionari che attraversarono Palermo durante tutto il periodo risorgimentale, la Conca d’oro stava conoscendo il primo boom delle esportazioni e iniziava a modellare la sua struttura insediativa su una proprietà frazionata e in base alle esigenze dell’economia agrumaria. Infatti, la Conca d’oro era caratterizzata da tante piccole aziende di proprietà di grandi aristocratici, cedute a gabellotti che lentamente si stavano integrando negli strati alti della società e della nuova borghesia urbana che investiva la propria rendita in un settore ricco[1].

Ma era una proprietà terriera assente, che viveva in città e che, per gestire le proprie aziende, era adusa a servirsi del nuovo «ceto intermediario» in ascesa. Gabellotti, custodi, sensali, guardiani, fontanieri: erano queste attività a garantire il funzionamento complessivo di un sistema che permetteva di lucrare sulle transazioni ad ogni anello dell’intermediazione. Un sistema, soprattutto, al cui vertice c’era un ‘vuoto di potere’ che né la classe dirigente, «incapace [e forse disinteressata] di darsi una veste imprenditoriale giocando la carta della gestione diretta delle aziende»[2], né lo Stato volle occupare, e che fu quindi ‘terreno di conquista’ delle cosche mafiose.

In assenza di una regolamentazione esterna della fase che andava dalla produzione alla commercializzazione del prodotto, sono state le organizzazioni mafiose ad assumere, con successo, questo compito. La cosca, infatti, «tende[va] a regolamentare in maniera monopolistica attività sostanzialmente legali»[3] su un determinato territorio: evitava la concorrenza tra intermediari; organizzava la prima fase della commercializzazione mediando nell’attività di compravendita (sensalìa), garantiva la guardianìa e, con essa, i rapporti tra proprietari e commercianti; controllava la distribuzione delle risorse necessarie alla conduzione dell’azienda agricola. L’analisi svolta da Salvatore Lupo sulla descrizione che il Rapporto Sangiorgi fa dei mafiosi delle otto cosche ad Ovest di Palermo mette in evidenza come la struttura della cosca rifletteva la duplice funzione economica e d’ordine che assumevano i suoi membri. Sono tre, infatti, i nuclei più numerosi: addetti alla custodia e alla direzione del fondo, proprietari di giardini e fondi «spesso pervenuti a tale status solo di recente» e varie figure di intermediari[4]. Ma tale funzione regolatrice è svolta ricorrendo a metodi illegali che presuppongono l’utilizzo della violenza privata: pressioni, minacce, intimidazioni e, in alcuni casi, l’eliminazione fisica.

Tutto il sistema di intermediazione solo apparentemente contrastava con gli interessi dei proprietari, che come abbiamo visto, necessitavano di queste figure soprattutto nella fase della prima commercializzazione.

L’interpretazione che vede la classe dirigente come un’«ostaggio nelle mani di un’aggressiva delinquenza» non regge perché i proprietari del palermitano dispongono di una «formidabile concentrazione di prestigio sociale e potere politico»[5] che li tiene saldamente al vertice della piramide sociale. Piuttosto, la classe dirigente entrava in relazione con le cosche mafiose nella delicata questione della commercializzazione e della custodia del prodotto e, in cambio, poteva offrire a sua volta protezione – queste relazioni di protezione reciproca erano chiamate «manutengolismo».

Un secondo spazio di contatto tra cosche e classe dirigente si apre sullo scambio tra protezione e organizzazione di clientele elettorali. I baroni infatti, che già si servivano di questa lunga schiera intermediari nei propri possedimenti, sfruttavano i loro contatti e le persone che gravitavano loro attorno per uscirne avvantaggiati nella lotta politica. Come sottolinea Salvatore Lupo, questo rapporto si esprime in «un voto di scambio che si orienta verso protettori diversi di cosche diverse» e che «si presenta come una costante, fin dalla creazione del sistema rappresentativo in Italia»[6].

Legame, questo, che già un attento osservatore come Sangiorgi non mancò di annotare:

I caporioni della mafia stanno sotto la tutela di Senatori, Deputati ed altri influenti personaggi che li proteggono e difendono per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e difesi. [7]

 

 

 

[1] S. Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza: la vicenda degli agrumi siciliani, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 1, 1987, p. 95-96.

[2] S. Lupo, «Il tenebroso sodalizio». Un rapporto sulla mafia palermitana di fine Ottocento, in «Studi Storici», n. 2, aprile-giugno 1988, p. 480.

[3] Ivi, p. 476.

[4] Ivi, pp. 466-67.

[5] Ivi, pp. 479.

[6] S. Lupo e R. Mangiameli, Mafia di ieri, mafia di oggi, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 7-8 1990, p. 30 e 29.

[7] Lupo, «Il tenebroso sodalizio» cit., p. 485.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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