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Quando cade il velo. Il vero volto del governo

Spesso, in politica, bisogna fare più attenzione ai gesti, al linguaggio del corpo, ai silenzi dei protagonisti piuttosto che alle parole, che possono essere scelte con cura, manipolate, può esserne stravolto il significato. Ce ne ha dato un esempio Giorgia Meloni nella giornata della fiducia alla Camera dei deputati.

È stata perfetta in ogni riga del suo discorso alla Camera dei deputati, Meloni. Ha rivendicato la vittoria elettorale senza umiliare gli sconfitti; ha dosato sapientemente le parole per ammantare duri concetti con uno strato di moderatezza tale da offuscarne la vera portata; ha ancorato stabilmente l’Italia nel contesto europeo e atlantico senza lesinare critiche e annunciare cambiamenti; ha elogiato una lunga lista di donne che, chi più incisivamente chi più nell’ombra, ha dato il suo contributo fondamentale e prezioso a questo Paese.

Nei 70 minuti di discorso per chiedere ai deputati la fiducia al suo governo, appunto, Meloni è stata perfetta con le parole. O meglio, servendoci del titolo di un libro di Gianrico Carofiglio, nella “manomissione delle parole”, ovvero nella scelta chirurgica di lemmi e frasi, dei luoghi del discorso in cui inserirli per far dire loro tutto e il contrario di tutto; nella scelta non solo di cosa dire, ma anche di cosa non dire (il nome “Liliana”, ad esempio, tra quello delle donne che Meloni ha scelto di ringraziare per aver rotto «il pesante tetto di cristallo posto sulle nostre [delle donne] teste»).

Dopo il discorso della premier, e dopo una pausa, inizia il giro degli interventi. E attorno alle 14.30, ecco lo squarcio. Prende la parola in aula Aboubakar Soumahoro, il sindacalista, attivista e sociologo di origini ivoriane appena eletto in Parlamento con l’Alleanza Verdi e Sinistra. Fa un discorso appassionato, l’onorevole Soumahoro, in cui cita forse il più grande sindacalista che l’Italia abbia mai avuto, Giuseppe Di Vittorio; in cui si assume l’onere, e l’onore, di dare voce in Parlamento agli ultimi, ai lavoratori sfruttati, a chi «è dimenticato, umiliato, marginalizzato, reso invisibile e scartato», a «chi porta sulla propria pelle, come me, le cicatrici del razzismo, della discriminazione». Ricorda le origini della Carta Costituzionale, le sue salde radici antifasciste e antirazziste, l’uguaglianza e la giustizia sociale che promuove. E ricorda che «italiani si nasce, e anche italiani si diventa, e non per questo si è meno italiani». Un discorso di grande, grandissima dignità, qualità che lo ha sempre distinto nella sua più che ventennale attività contro le disuguaglianze, lo sfruttamento, il caporalato.

Al termine del giro di interventi Giorgia Meloni riprende la parola, decide di rispondere ad alcuni di essi. Durissima la replica all’onorevole Serracchiani in tema di donne e femminismo: la invita a “guardarla” mentre le risponde, sfidandola apertamente e rischiano di farla diventare facile bersaglio della maggioranza. Parla di Pnrr, di reddito di cittadinanza, di lotta alla mafia. Come già nel discorso mattutino, è molto controllata: nel tono, nelle parole; è dura ma lascia spiragli d’intesa, mostra un volto bonario.

Poi, alle 17.33, decide di rispondere all’onorevole Soumahoro. È difficile capire se ciò che viene dopo sia qualcosa di voluto, o se in un attimo di stanchezza, dopo sette ore di concentrazione e self-control, abbia abbassato la guardia. Grave nel primo caso, perché sarebbe un chiaro manifesto politico; gravissimo nel secondo, perché mostrerebbe i principi e i valori della neo-premier, la “sostanza” e non la “forma”. Meloni sbaglia il nome dell’onorevole: “Souhamoro” lo chiama. Eppure, se ha deciso di rispondergli, è difficile credere che il suo cognome non lo conosca. L’onorevole Soumahoro la corregge a gran voce, e Meloni risponde: «Soumahoro, scusami… che tutti ci sentiamo scolari della storia, sai?», con tono sufficiente, quasi paternalistico. Si gira, esita, le esce un “ehm”, e poi riprende a parlare.

Ecco, è qui che cade il velo, che la maschera rassicurante del leader buono, gentile, comprensivo, cade fragorosamente a terra, mostrando il vero volto di Giorgia Meloni e di questo governo. La Presidente del Consiglio viola una prassi del Parlamento: non solo rivolgersi direttamente ai parlamentari, ma farlo dando loro del “tu”, e non del “lei”. Usare la terza persona singolare per rivolgersi a persone non strette, si sa, è segno di educazione, di rispetto, una “regola sociale”, e vale tanto di più all’interno degli organi di rappresentanza del Paese. È normalità, poi, che lo si faccia tra colleghi di lavoro, tra pari. Ebbene, con quello scusami, con quel sai, Meloni non solo manca di rispetto a una persona, prima che a un parlamentare, che rispetto lo merita sia in quanto essere umano, sia per la sua storia. Meloni, che è una politica navigata e il Parlamento lo conosce ormai da molto tempo, dando del “tu” all’onorevole Soumahoro, sancisce una netta disuguaglianza: non lo riconosce, cioè, come un suo pari, non lo ritiene degno di ricevere quel rispetto che, poco prima, ha rivendicato di aver sempre concesso all’opposta parte politica. Non questa volta. Perché?

Esita, subito dopo, perché si è resa conto dell’errore? Oppure perché, cosciente della gravità dell’azione che stava compiendo, si aspettava una pronta risposta? La protesta dall’opposizione arriva, Meloni non capisce – o forse fa finta di non capire –, dice di non aver dato a nessuno del “tu”. Poi rinsavisce, bacchettata dall’opposizione: «Ah mi scusi, mi scusi…boni». È il classico siparietto all’italiana, che si prova a far finire in caciara per mascherare la gravità del gesto.

Perché, quindi? La risposta, purtroppo, è semplice. Perché Aboubakar Soumahoro, come si è definito, è un underdog, uno sfavorito, proviene dai bassifondi, si impegna per aiutare gli ultimi a rialzarsi, si batte contro le ingiustizie, le disuguaglianze, si batte per la dignità del lavoro e della condizione dei lavoratori. Perché ha dimostrato che anche chi parte sfavorito può vincere la dura sfida che si presenta in Italia per ogni straniero: lavorare, integrarsi nella società, realizzarsi, partecipare alla vita pubblica. Perché l’onorevole Aboubakar Soumahoro è nero. E allora, l’onorevole Soumahoro non merita di essere trattato alla pari, a lui si può dare del “tu”. Consciamente o inconsciamente. E non merita nemmeno di ricevere delle scuse degne di essere chiamate tali, ma solo un «mi scusi, mi scusi» detto con tono scocciato, poco più che sottovoce. Probabilmente perché nemmeno pensava, Meloni, di avergli negato la dignità del ruolo del ricopre, di non avergli concesso quel rispetto che merita.

Il velo è caduto. E ciò che si è visto sotto, anche se solo per pochissimi minuti, spaventa. Saranno tempi duri per i diritti umani e civili qui in Italia. E un assaggio il nuovo governo lo ha già dato: ieri, il nuovo ministro dell’Interno Piantedosi ha impedito a due navi ONG con 320 migranti a bordo di entrare nei confini marittimi italiani. Non poteva esserci traduzione più accurata, nei fatti, delle parole della neo-premier: gli ultimi, i bisognosi, i “diversi”, non sono nostri pari e non devono esserlo. A partire dalle parole, che sono quelle che creano e plasmano la realtà.

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Matteo Machet
Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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