26 ottobre 1860, Teano (CE).
«Oh, vi saluto, mio caro Garibaldi: come state?».
«Bene, Maestà, e Lei?».
«Benone!».
Secondo Alberto Mario, patriota e uno tra i volontari giunti in Sicilia a sostegno dell’impresa dei Mille, furono queste le parole che si scambiarono Garibaldi e Vittorio Emanuele quando si incontrarono a Teano, dove il generale “consegnò” al re la Sicilia e il Mezzogiorno. L’incontro è uno dei momenti del Risorgimento che è stato maggiormente celebrato, in particolare dall’iconografia. Famosissimo è l’affresco di Pietro Aldi nel Palazzo Pubblico di Siena: qui Garibaldi viene raffigurato a cavallo, di schiena mentre stringe la mano al re, vestito con il suo poncho e un fazzoletto al collo, la chioma bionda ben pettinata e un berretto nero; Vittorio Emanuele è in alta uniforme, in sella a un cavallo bianco. Probabilmente l’incontro fu meno epico di quanto raffigurato: sempre Alberto Mario riferisce infatti che il fazzoletto Garibaldi se lo era annodato in testa per coprirsi dall’umidità mattutina, e che all’arrivo del re i due non si strinsero la mano, ma Garibaldi semplicemente si sfilò il berretto.
Dopo un breve colloquio, i due si separano: Garibaldi aveva provato a chiedere al re di non disperdere i volontari, di integrarli all’esercito regolare piemontese che si apprestava a entrare a Napoli. Niente da fare, le camicie rosse venivano messe in disparte. Il 9 novembre, Garibaldi partiva per tornare alla sua Caprera: con sé portava dei legumi, delle sementi, caffè e zucchero. All’ammiraglio Persano, poco prima di partire, lasciò trapelare la sua delusione: «Ecco, Persano, degli uomini si fa come degli aranci; spremutone il succo fino all’ultima goccia, se ne getta la buccia in un canto».
Lo sbarco nel Continente
Eppure, Vittorio Emanuele era stato tra i maggiori sostenitori “istituzionali” dell’impresa di Garibaldi. Fu proprio lui ad avallare ufficiosamente la prosecuzione dell’impresa, una volta liberata la Sicilia. Lo sappiamo dal carteggio di quei giorni tra i due. Il 27 luglio, il re inviò il conte Giulio Litta-Modignani a Messina per consegnare una lettera a Garibaldi in cui, rimarcando di non aver approvato la campagna in Sicilia, gli sconsigliava di «passare colla sua valorosa truppa sul continente napoletano, purché il re di Napoli si impegni a sgombrare tutta l’isola, e lasciare liberi i siciliani di deliberare e disporre delle loro sorti». Una “rassegnata” accettazione di ciò che era successo, dunque, e una presa di distanza. Ma l’ambasciatore aveva una seconda lettera con sé, ufficiosa, scritta sempre dal re: «Il generale dovrà rispondere che egli è pieno di devozione e riverenza pel Re, che vorrebbe potere eseguire i suoi consigli, ma che i suoi doveri verso l’Italia non gli permettono di impegnarsi a non soccorrere i napolitani, quando questi facessero appello al suo braccio per liberarsi da un governo, nel quale gli uomini leali e i buoni italiani non possono avere fiducia. Che quindi con dispiacere ei deve riservarsi piena la sua libertà d’azione».
Una dimostrazione formidabile di come facesse politica il re Vittorio: spesso per contro proprio, in segreto, prendendo direzioni opposte a quelle del governo in carica – che in quei giorni stava cercando di suscitare a Napoli un moto moderato per rovesciare i Borbone, spingeva per l’annessione immediata della Sicilia al Piemonte e vietava l’afflusso di ulteriori volontari. Alfonso Scirocco, nella sua biografia di Garibaldi (Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Laterza, 2001), riferisce anzi di un collegamento diretto tra Vittorio Emanuele e Garibaldi: da un lato, Garibaldi informò il re dei suoi piani di passare lo Stretto e addirittura richiese l’invio di armi; dall’altro lato, Vittorio dava carta bianca al generale, lasciando a lui «la decisione di invadere le Marche e l’Umbria o di sciogliere i volontari una volta padrone del Mezzogiorno, gli raccomandava di proclamare l’unione al resto d’Italia, di tenere compatto l’esercito napoletano per farlo confluire nell’esercito piemontese».
Insomma, quando Garibaldi decise di passare lo Stretto, era sicuro di poter contare sull’appoggio del re. Lo fece nella notte tra il 18 e il 19 agosto, anche in questo caso con uno stratagemma: non partì da Messina, cioè da dove i borbonici si aspettavano, bensì da Taormina, aggirando l’esercito che era dislocato da Vibo Valentia a Reggio. Prima però si fece vedere al Faro di Messina dagli avversari, e intanto aveva già fatto partire due piroscafi in direzione di Taormina, al comando di Nino Bixio, che costeggiarono la Sicilia meridionale per passare inosservati. Le camicie rosse sbarcarono a Mèlito Porto Salvo, a sud di Reggio, e iniziarono la risalita dello Stivale.
L’esercito borbonico era forte e ancora quasi del tutto intatto: in Sicilia aveva perso, in proporzione, pochi uomini, e ora in Calabria poteva contare su un buon contingente. Eppure, di fronte all’avanzata dei garibaldini, si sciolse come burro: Reggio fu presa il 21 agosto, Villa San Giovanni il 23 agosto, si arresero anche i forti difensivi sulla costa; la flotta borbonica ripiegò su Napoli. Contemporaneamente, erano insorte Potenza, Foggia e Bari. La monarchia borbonica stava rapidamente collassando.
Lo spartiacque di Napoli: i contrasti con Cavour e l’intervento piemontese
Di fronte alla rapida avanzata di Garibaldi, il re delle Due Sicilie, Francesco II, decise di non combattere l’invasore, pur potendo contare ancora su 50.000 uomini preparati e fedeli, ma di abbandonare Napoli, ammassare le truppe a Capua e rifugiarsi nella fortezza di Gaeta, il 6 settembre. Lo stesso giorno Garibaldi arrivò a Salerno con pochi uomini, dove fu accolto dal sindaco di Napoli e dal comandante della Guardia Nazionale, che gli consegnarono letteralmente la capitale. Il 7 settembre Garibaldi entrò trionfalmente a Napoli in treno, accolto da una folla festante: la città era con lui, l’opinione pubblica internazionale anche.
Si approfondì, invece, la spaccatura con Cavour, sempre più preoccupato dalla situazione. A Napoli, infatti, in breve tempo erano accorsi Mazzini, Cattaneo, Aurelio Saffi, Giuseppe Ferrari: tutti pericolosi rivoluzionari e repubblicani, dal punto di vista di Cavour, che avrebbero messo a rischio la concreta possibilità di annettere il Regno delle Due Sicilie; inoltre, era ben consapevole dei veri progetti di Garibaldi, cioè di liberare anche Roma e Venezia. Da navigato politico, Cavour sfoderò l’asso dalla manica: convinse Napoleone III ad avallare una spedizione dell’esercito piemontese attraverso lo Stato pontificio senza che intervenisse la Francia, per bloccare qualsiasi ulteriore sviluppo. Il papa avrebbe dovuto sacrificare parte del suoi possedimenti del Centro Italia, ma avrebbe mantenuto Roma. Così, in settembre partì una “seconda spedizione”, quella dell’esercito piemontese, che attraversò i territori dell’Italia centrale e, recandosi verso il Mezzogiorno, sconfisse l’esercito pontificio a Castelfidardo (18 settembre), liberando l’Umbria e le Marche.
È vero che il progetto di Garibaldi era di proclamare il Regno d’Italia a Roma – motivo per cui non acconsentì subito allo svolgimento dei plebisciti né in Sicilia né a Napoli –, ma Cavour dimenticava che tutte le sue azioni da dittatore, Garibaldi le aveva compiute con l’obiettivo ultimo dell’annessione al Regno di Sardegna – intitolò tutti gli atti pubblici a «Sua Maestà Vittorio Emanuele re d’Italia» ed estese anche al continente lo Statuto albertino –; quando, però, al generale arrivò la notizia di Castelfidardo, capì che il suo obiettivo non poteva essere raggiunto. D’altronde, in quelle settimane anche l’opinione pubblica meridionale si era avvicinata sempre di più alla posizione dell’annessione immediata, preoccupata da una possibile deriva repubblicana e desiderosa di riportare ordine nel Paese.
La fine di un regno…
A questo punto, sia l’esercito piemontese che i garibaldini avevano fissato l’obiettivo: Gaeta, dove era rifugiato Francesco II. Dopo Castelfidardo, il primo era riuscito a penetrare agevolmente nel Mezzogiorno passando dall’Abruzzo; i secondi, invece, incontrarono l’ultima, forte resistenza dell’esercito borbonico, appoggiato dalla popolazione locale: la fortezza di Capua, sul fiume Volturno. Già dal 21 settembre i due schieramenti vennero a contatto, ma lo scontro principale si verificò all’alba del 1° ottobre: l’esercito borbonico, composto di poco meno di 30.000 uomini, uscì dalla fortezza e attaccò; quello garibaldino, circa 25.000 effettivi, si difese su tutto il fronte, colse i borbonici di sorpresa, alle spalle, e li costrinse a rientrare a Capua. La battaglia era vinta.
Tuttavia, fu in questo momento che Garibaldi si rassegnò definitivamente ad abbandonare i suoi propositi: l’esercito del re Francesco II era ancora consistente, asserragliato tra Capua e Gaeta, la popolazione sosteneva il Borbone e i suoi volontari non erano sufficienti a far capitolare una volta per tutte il Regno delle Due Sicilie. Garibaldi si apprestava a lasciare l’iniziativa a Vittorio Emanuele e al governo piemontese. A inizio ottobre, i prodittatori di Sicilia e di Napoli, rispettivamente Antonio Mordini e Giorgio Pallavicino Trivulzio, decretavano lo svolgimento dei plebisciti a suffragio universale maschile per il 21 ottobre; due settimane dopo si svolsero anche in Umbria e nelle Marche. Il quesito era secco, e la risposta poteva essere solo un assenso o il diniego: «Il popolo vuole l’Italia Una e Indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?». Oltre il 98% dei votanti si espresse per il sì: l’annessione di Napoli e della Sicilia allo Stato sabaudo, con la sua forma di governo, i suoi ordinamenti e le sue leggi, era sancita, anche se furono formalizzate solo due mesi dopo, con i Regi decreti 17 dicembre 1860, nn. 4498 e 4499 – le Marche e l’Umbria, invece, con i nn. 4500 e 4501.
… e la nascita di uno Stato-nazione
Abbiamo iniziato questo contributo dal celeberrimo incontro a Teano, il 25 ottobre 1860. Le strade dei due protagonisti si divisero in novembre: mentre Garibaldi si recava a Caprera, l’esercito piemontese sconfisse le ultime resistenze borboniche e assediò Francesco II a Gaeta. Un assedio lunghissimo, durato quattro mesi e terminato solo nel febbraio 1861 con la capitolazione della fortezza. Mentre Francesco II fu costretto ad andare in esilio a Roma – da dove, ironia della sorte, dovette fuggire nuovamente nel 1870, a causa dell’esercito piemontese – a Torino, di lì a un mese, Vittorio Emanuele II fu nominato dal Parlamento re d’Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione».
Le informazioni e le citazioni utilizzate per questo articolo sono tratte dal volume, già citato, di Alfonso Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo (Laterza, 2001).