Portella della Ginestra, Piana degli Albanesi (PA). 1° maggio 1947. Ore 10:00.
Il cielo è limpido e l’erba ancora bagnata di rugiada, nella piana di Portella della Ginestra. Nessun pastore ha portato il suo gregge al pascolo stamattina. Nessun contadino è andato a lavorare la terra. Oggi è il 1° maggio, è festa.
Erano decenni che non si scendeva più in piazza il 1° maggio. Per la precisione dal 1924, quando il fascismo decise di spostare la Festa dei Lavoratori al 21 aprile, accorpandola al Natale di Roma. Di fatto, cancellandola. Ma il 2 giugno dell’anno scorso tutto è cambiato. Il popolo italiano ha votato la Repubblica, i partiti del Cln hanno preso in mano le redini del Paese, l’Assemblea costituente sta scrivendo la nuova Costituzione repubblicana. E i lavoratori sono tornati a manifestare, a scendere in piazza, a farsi sentire.
Questa mattina ci sono qualche migliaia di persone nella Piana di Portella della Ginestra, di fronte al Sasso di Barbato, quel podio naturale da cui Nicola Barbato, il medico socialista fondatore dei Fasci Siciliani dei Lavoratori, teneva i suoi comizi. Ci sono agricoltori, principalmente. O meglio, schiavi. Della terra. Del latifondo. Dei padroni “agrari”. D’altronde, siamo nella Sicilia occidentale del primissimo dopoguerra. Terra di estrema povertà, di fame, di miseria. Di banditi. E di mafia.
Ma siamo anche in un’Italia che sta attraversando una congiuntura estremamente particolare della storia contemporanea. il 12 marzo 1947, di fronte al Congresso americano, il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman enunciò quella che è passata alla storia come la “dottrina Truman”: la “politica del contenimento” del comunismo. Iniziava, di fatto, alla Guerra fredda. E l’Italia, in breve, divenne uno dei Paesi della “cortina di ferro”, quegli Stati che si ponevano al “confine” con il blocco sovietico. E non uno qualsiasi, ma quello con il Partito comunista più forte tra gli Stati del blocco atlantico. Dove i comunisti partecipavano ai governi di unità nazionale. Insomma, una bomba a orologeria, pronta a esplodere da un momento all’altro. Soprattutto in Sicilia. Dove, il 20 aprile di quell’anno, alle elezioni regionali, socialisti e comunisti riuniti nel “blocco del popolo” avevano superato, assieme, la Dc. Il “blocco del popolo” non guadagnò l’amministrazione dell’isola per un soffio, a causa degli alleati minori della Dc.
Ecco perché una festa “rossa” come quella dei Lavoratori, nella Sicilia dell’immediato dopoguerra, in quegli anni poteva rappresentare un grosso, enorme pericolo per gli assetti politici nazionali e internazionali.
A quella folla festante e arrabbiata, che chiede terra, pane e riforme, avrebbe dovuto parlare il deputato del Pci all’Assemblea Costituente Girolamo Li Causi. Non arriverà. Al suo posto, dà avvio al comizio un compagno, Giacomo Schirò, un calzolaio di San Giuseppe Jato. Appena qualche minuto e inizia l’inferno.
Dai monti che incastonano la piana di Portella della Ginestra iniziano a vorticare pallottole. Sono i colpi di mitra del leggendario Salvatore Giuliano e della sua banda. E cadono all’impazzata sui manifestanti. Che inizialmente scambiano il rumore dei proiettili per mortaretti scoppiati a festa. Poi vedono uno, due, tre compagni cadere a terra. E iniziano a correre, a scappare terrorizzati. Alla fine saranno 11 le vittime di quel 1° maggio 1947, a Portella della Ginestra. Tra queste, ci sono Serafino Lascari, Giuseppe Di Maggio e Giovanni Grifò. Hanno rispettivamente 14, 13 e 12 anni. E poi c’è Vincenza La Fata, che di anni ne ha appena otto. Ancora dei bambini. Qualcuno di loro aveva già conosciuto la fatica del lavoro dei campi, qualcun altro no. Era lì, portato dai genitori, per gioire in una giornata di festa. Che in pochi minuti si è trasformata in una strage. Anzi, come è stata definita, la prima “strage di Stato”.
Perché? C’è una verità processuale, che individua nella banda di Salvatore Giuliano gli unici colpevoli dell’eccidio. Ma i dubbi attorno all’episodio sono tanti. A partire dai depistaggi. Fin dai primissimi giorni successivi, i carabinieri individuarono una pista che portava alla mafia, probabilmente quella giusta. Ma fu interrotta subito, bruscamente.
Poi, la scia di morti che la strage si portò dietro. Quella di Salvatore Giuliano, trovato morto nel luglio del 1950 a Castelvetrano. Quella dell’altro membro di spicco della banda, Salvatore “Fra Diavolo” Ferreri, ucciso in un conflitto a fuoco pochi giorni dopo quel 1° maggio. Una sparatoria le cui motivazioni e dinamiche non sono mai state del tutto chiarite. Forse perché Fra Diavolo, si scoprì più avanti, era il confidente di Ettore Messana, il capo della polizia siciliana? Forse perché quest’ultimo venne a conoscenza del vero motivo dell’eccidio di Portella della Ginestra? Non lo sapremo mai.
Anche perché l’ultimo vertice della banda, Gaspare Pisciotta, morì nel carcere dell’Ucciardone nel 1954, dopo aver bevuto un caffè alla stricnina. E proprio Gaspare Pisciotta, durante il processo per la strage, aveva lasciato intendere che dietro il massacro non c’era solo la sua banda, ma una “santissima trinità” composta da banditi, politica e mafia. Esecutori, mandanti e occultatori.
La strage di Portella della Ginestra è uno di quei molti, troppi tetri misteri italiani che ancora sono rimasti senza vere risposte. Una ferita ancora aperta. Nella storia della nostra Repubblica e nelle vite delle famiglie di quegli undici innocenti che il 1° maggio 1947 hanno perso la vita di fronte al Sasso di Barbato.