9 maggio 1978.
L’intera nazione si fermava davanti a quello che sarebbe stato uno dei casi di cronaca nera più importanti ed enigmatici dell’intera storia repubblicana: il delitto di una delle figure più importanti della storia nazionale, il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.
La formazione
Aldo Romeo Luigi Moro nacque il 23 settembre 1916, un anno dopo l’intervento italiano nella Prima guerra mondiale, a Maglie in Puglia, ma trascorse l’adolescenza a Taranto a causa del trasferimento di lavoro del padre. Nei tredici anni trascorsi nella città pugliese, Aldo formò la sua personalità: calma, spiritualità e moderazione sono le parole d’ordine di un uomo che non ha mai fatto prevalere l’istinto alla ragione, un uomo dalle mille sfaccettature che cambiò la visione della politica italiana.
Nel 1938 si laureò con il massimo dei voti in Giurisprudenza presso l’università di Bari, ambiente che non lascerà più. Dopo il periodo passato nel ruolo di assistente volontario di Biagio Petrocelli, professore che lo guidò nella sua tesi, Moro diede vita a una serie di insegnamenti che lo porteranno a ottenere la cattedra ordinaria di Diritto penale.
Impegnato sin dal 1943, anno in cui si discusse e si approvò il documento redatto da Alcide De Gasperi per la nascita della Democrazia Cristiana, nella vita politica del Paese, Moro decise nel 1963 di trasferirsi all’Università di Roma, in qualità di professore di Procedura penale nella facoltà di Scienze Politiche, in modo da riuscire a conciliare meglio i due impegni.
Vita politica
Nel 1946 viene nominato vicepresidente del nuovo partito centrista, all’interno del quale, sulla base del suo carattere moderato, dimostrò sin da subito una tendenza democratico-sociale, dando vita a quella che comunemente viene definita come sinistra della DC.
Successivamente ricoprì una molteplicità di incarichi che lo porteranno nel ’59, a seguito delle dimissioni del Presidente del Consiglio Fanfani, a ricoprire la carica di segretario del partito, posizione dalla quale abbandona la linea politica, precedentemente tracciata, di apertura a sinistra. Al ritorno in politica dello stesso Fanfani, negli anni ’60, il desiderio di collaborazione tra le due fazioni politiche tornò ad essere preso in considerazione e, grazie all’iniziativa dei due, si tentò di far approvare una linea di collaborazione con il Partito Socialista Italiano.
Questa apertura si propagherà durante i vari governi, seppur in una situazione conflittuale tra i vari membri dei partiti politici italiani, fino a dar luce a quello che verrà conosciuto come “compromesso storico”.
Il compromesso storico
Nel 1973, Enrico Berlinguer, segretario del PCI, propose la definitiva unione tra Democrazia Cristiana e Partito comunista per permettere di dare spazio anche a quella fazione, lasciata fuori dagli affari politici del paese per via del suo avvicinamento con l’Unione Sovietica, di entrare al governo. La proposta venne successivamente accolta e approvata dal presidente democristiano attraverso una stretta di mano con lo stesso Berlinguer: stretta di mano che avrebbe ridato al paese una dignità che da tre anni era stata persa.
L’Italia degli anni ’70, infatti, era immersa in una strategia di terrore portata avanti da diverse organizzazioni estremistiche, sia di destra che di sinistra, che portarono a una vera e propria “lotta armata”. Tra i vari motivi dell’estremismo “rosso”, messo in atto da gruppi che praticavano il cosiddetto “antifascismo militante”, vi era anche il contrasto all’inserimento del Pci – il loro “ideale” referente politico – nel governo. Tra le ovvie motivazioni di tale accordo tra democristiani e comunisti, da un lato vi era il voler assicurare la fine degli scontri e l’incolumità nazionale, dall’altro lato la promessa dell’indipendenza dei comunisti italiani dall’Unione Sovietica.
Il compromesso non viene visto di buon occhio né da componenti del partito socialista italiano, come Bettino Craxi, né dall’ala destra della DC, rappresentata da Giulio Andreotti.
Il caso Moro
Tale incontro, però, viene visto negativamente anche da altri, che lo reputano un vero e proprio tradimento da parte di un Pci “imborghesito”. Erano alcune frange dell’estremismo extraparlamentare di sinistra, in particolare una firma: le Brigate Rosse, che misero in pratica definitivamente le loro idee radicali e violente con il rapimento di una delle due parti essenziali dell’accordo.
Il 16 marzo 1978, giorno in cui sta per essere presentato in Parlamento il nuovo governo guidato da Andreotti, Aldo Moro viene rapito a Roma, in Via Fani, proprio dalle Brigate Rosse. Seguiranno 55 giorni di prigionia, in cui i brigatisti cercheranno, tramite la sua figura, di contrattare con il governo, che nonostante il tragico evento non si abbassò a compromessi. Dopo quei lunghissimi 55 giorni, Moro verrà ucciso il 9 maggio dello stesso anno e fatto ritrovare all’interno di una Renault 4 rossa in Via Caetani, sempre nel capoluogo.
La figura di Moro, come detto inizialmente, è sempre stata vista come pacata e moderata, dopo il compromesso si aggiunse la convinzione che potesse essere anche e soprattutto il mediatore di due fazioni politiche da sempre lontane e in contrasto tra loro. Per tale motivo, e per una serie di prove misteriose durante la sua prigionia, il suo omicidio diede vita a una serie di ipotesi e dubbi non ancora risolti.