La crisi petrolifera fu per l’Occidente un trauma fortissimo sul piano psicologico prima ancora che economico in quanto rivelò l’estrema fragilità dei sistemi economici più avanzati: la dipendenza dei carburanti da parte dell’industria. Gli effetti economici di questa crisi, che fermarono la crescita produttiva che si era venuta a formare dal 1945, modificarono il rapporto tra società e Stato e le stesse dinamiche del capitalismo.
C’è chi ha sostenuto che dal 1973 possiamo far partire la nostra età contemporanea perché dopo questa data venne a formarsi la crisi dello Stato assistenzialista e l’affermazione delle politiche neoliberiste; la crisi del settore industriale occidentale con fenomeni come la disoccupazione e la delocalizzazione; una società post-industriale e il capitalismo finanziario in Occidente; la crisi del potere del singolo Stato-nazione nei confronti del mondo globale.
La crisi degli anni Settanta
La crisi degli anni ’70 iniziò con due avvenimenti. Nell’agosto 1971 gli USA sospesero la convertibilità del dollaro in oro che, istituita nel 1944 dagli accordi di Bretton Woods, da oltre trent’anni era stato il principale pilastro del sistema monetario internazionale: tra il 1950 e il 1973 il valore delle esportazioni mondiali si moltiplicò per quasi sette volte. Così, dall’inizio degli anni ’70 iniziò una lunga fase di instabilità e di disordine monetario internazionale che causò sia il continuo oscillare dei prezzi delle materie prime – la fonte di approvvigionamento della grande industria occidentale –, sia l’insicurezza nei cambi fra le monete dei vari paesi non più ancorate a un sistema di convertibilità fisso.
Nell’agosto del 1973, in risposta alla cosiddetta guerra dello Yom Kippur (la quarta guerra arabo-israeliana), il cartello dei paesi produttori di petrolio OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) decise di quadruplicare il prezzo del greggio. Tutto questo portò un vero e proprio shock petrolifero che colpì tutti i paesi industriali: alla fine degli anni ’70, il prezzo di un barile di petrolio arrivò a superare di oltre dieci volte quello che aveva all’inizio del decennio – in Italia l’aumento dei prezzi arrivò a sfiorare il 20%.
Gli effetti della crisi petrolifera
Nell’Occidente, tra il 1974-1975, la produzione industriale registrò un calo verticale; dal 1976 riuscì a ripartire, ma con ritmi più lenti rispetto al periodo precedente. Diversamente dalle crisi del passato, in cui i prezzi subirono un calo, durante questo decennio alla recessione produttiva, causata dall’aumento delle materie prime e del petrolio, la tendenza inflazionistica si accompagnò a un progressivo aumento dei prezzi: quello che venne a delinearsi fu una «stagflazione», ovvero una stagnazione dell’economie occidentali, a causa del crollo improvviso sia la domanda interna sia la produzione industriale, e contemporaneamente un aumento dell’inflazione.
Tutto ciò causò un’accelerazione del processo di finanziarizzazione dell’economia globale in quanto, ad esempio, solamente fra il 1973 e il 1976 l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio garantì ai paesi esportatori, che per la maggior provenivano dagli Emirati Arabi Uniti, circa 70 miliardi di petrodollari. Questo aumento vertiginoso di capitali fu impiegato non solo per lo sviluppo dei paesi esportatori – nel 1979 si inaugurò il porto di Jebel Ali e il Dubai World Trade Centre, ovvero il primo progetto architettonico ambizioso della città –, ma per la maggior parte in investimenti nella finanza internazionale: i “petroldollari” contribuirono ad aumentare una massa di capitali finanziari liberamente circolari su scale globale.
Sul piano sociale dilagò la crescita della disoccupazione per tutto il decennio. A questa crisi lo Stato assistenzialista, che era stato creato nel decennio precedente da vari governi progressisti in diversi paesi occidentali, rispose con paracaduti sociali come i sussidi di disoccupazione e le sovvenzioni statali all’industria. Tuttavia, essendosi rotto, a causa della crisi, l’anello di prosperità generalizzata di tutta la società – che legava la crescita del mercato, l’aumento della produzione industriale, l’incremento dei salari e dei consumi e la ridistribuzione delle ricchezze attraverso le politiche sociali dello Stato progressista –, proprio quelle politiche sociali entrano in difficoltà. I paesi occidentali, per rispondere al crescente aumento della spesa pubblica, non più sostenuta dallo sviluppo produttivo, dovettero aumentare la pressione fiscale suscitando varie le critiche alle forme dello Stato assistenzialista e ad ogni intervento pubblico nell’economia.
La risposta alla crisi in Europa occidentale
Le critiche al sistema social-democratico, che era entrato in crisi dal 1973, negli anni ’80 si condensarono nel neoliberismo delle politiche di Regan, presidente degli USA, e di Margareth Thatcher, primo ministro della Regno Unito, che smantellarono progressivamente lo Stato assistenzialista e l’iniziativa pubblica nell’economia attraverso politiche di privatizzazione.
In questo stesso decennio la Francia e l’Italia vissero una stagione politica per molti versi simili, in quanto in entrambi i paesi i socialisti arrivarono al governo. Nonostante i programmi riformatori (tradizionalmente favorevoli a programmi di nazionalizzazione dell’industria, riforme sociali e aumenti dei salari), le difficoltà dell’economia indussero i governi socialisti ad adottare anche loro politiche neoliberiste che avevano il fine di ridurre il deficit pubblico gravato sempre più dall’aumento della spesa pubblica.