Home Politica Italiana Elezioni Dov’è finita la lotta all’evasione?

Dov’è finita la lotta all’evasione?

La bozza della Legge di bilancio 2023 è stata bollinata ed è pronta a essere discussa in Parlamento. Sul testo sono piovute critiche da ogni parte: dall’Europa, da Bankitalia, dall'Ocse, dalle opposizioni, dalle parti sociali. In particolare, preoccupa l’indirizzo del governo in materia di lotta all’evasione fiscale: l’innalzamento del tetto all’uso del contante a 5.000 euro, l’eliminazione dell’obbligo ad accettare pagamenti elettronici sotto i 60 euro e la cancellazione delle cartelle esattoriali al di sotto dei 1.000 euro sono misure che vanno nella direzione opposta all’obiettivo di ridurre l’evasione; obiettivo a cui, oltretutto, è legata l’erogazione i fondi del Pnrr.

«Chi paga il caffè con il bancomat è un rompiballe». La frase shock, pronunciata da un ministro della Repubblica, Salvini, riassume bene l’indirizzo che il governo vuole dare al Paese in materia fiscale. Ne abbiamo già parlato, ma è necessario ribadirlo: chi in questi anni ha fatto i salti mortali per mantenere i propri impegni con la collettività, pagando le tasse, avrà ben ragione ad arrabbiarsi e chiedersi il perché di tutti i suoi sacrifici – se non per stare in pace con la sua coscienza. Le misure previste dalla manovra 2023, infatti, vanno controtendenza rispetto alla strada tracciata dall’esecutivo Draghi.

Via l’obbligo, per gli esercenti, di accettare pagamenti con il POS sotto i 60 euro

Se quest’ultimo aveva intrapreso la via della digitalizzazione – e dunque della tracciabilità – dei pagamenti e di una vera e propria battaglia culturale all’uso del contante, e aveva legato questi obiettivi alla ricezione dei fondi del Pnrr, il nuovo governo farà marcia indietro. Vediamo perché.

Uno dei provvedimenti che più sta facendo discutere è l’eliminazione dell’obbligo, per gli esercenti, di accettare pagamenti elettronici al di sotto dei 60 euro – anche se, con il passare dei giorni e l’aumentare delle critiche, si sta parlando ora di abbassare questa soglia a 30 euro o addirittura di toglierla. Ciò che qui ci preme sottolineare non è tanto la discussione sulla soglia, ma l’impatto di questa norma sulle abitudini che si stavano faticosamente consolidando negli italiani.

Che uno degli obiettivi del governo fosse proprio quello di legittimare nuovamente l’uso del contante non è una nulla di nuovo. Ora, i problemi principali, a nostro avviso, sono due. Il primo riguarda, ovviamente, l’evasione fiscale: secondo Repubblica, l’80% dei pagamenti elettronici in Italia è al di sotto dei 60 euro. Eliminare l’obbligo di accettare questo tipo di pagamenti significa eliminare l’unico strumento dà la certezza di poterli tracciare, facendo aumentare esponenzialmente il rischio che su quelle transazioni non venga pagata l’Iva. Insomma, lo strumento di controllo tornerà ad essere principalmente la coscienza del commerciante o il senso del dovere del cliente: perché è vero che gli esercenti hanno l’obbligo di emettere lo scontrino o la fattura, ma è altrettanto vero che l’Italia è tra i primi Paesi europei per evasione dell’Iva.

Il secondo, e probabilmente peggiore, problema, è che, in questo modo, si intraprende una battaglia a livello culturale contro i pagamenti elettronici. E la frase del ministro Salvini è solo la punta dell’iceberg. Togliere l’obbligo di accettare pagamenti elettronici sotto una certa soglia equivale a delegittimare completamente quello strumento – che, ripetiamo, è l’unico che dà la certezza della legalità della transazione –, e anche ciò che rappresenta: la lotta all’evasione fiscale. C’è un dato, però, che dà speranza: con i giovani, l’operazione culturale di promuovere l’uso dei pagamenti elettronici, di qualsiasi tipo, ha funzionato. Gli adulti del futuro, la prossima classe dirigente, faranno parte di una generazione che, probabilmente, nel portafogli ci terrà i documenti e le carte bancomat. E, forse, le monete per un caffè.

Aumento al tetto contante

Nella stessa direzione di riabilitare l’uso del contante va la misura forse più identitaria della destra italiana in materia fiscale. Dal 1° gennaio 2023 il tetto all’uso del contante avrebbe dovuto abbassarsi dai 2.000 euro attuali a 1.000 euro. In campagna elettorale le forze di destra, la Lega su tutti, avevano promesso che si sarebbero battuti per innalzare il limite a 10.000 euro. Infatti, è stata una delle primissime proposte pervenute al governo Meloni, che l’ha difesa – e continua a farlo – sostenendo che in Europa molti Paesi non hanno un tetto, e che perciò ci staremmo allineando ai parametri europei. Così, senza ulteriori colpi di scena, dal 1° gennaio il tetto salirà a 5.000 euro.

Abbiamo già parlato di come non sia del tutto vera questa affermazione, ma anche in questo caso il problema è a un altro livello. Anche il tetto al contante era una misura che rientrava più nella sfera “pedagogica” che pratica. Avete mai visto qualcuno andare a comprare un televisore con 2.000 euro in contanti? Noi no. Oggi la stragrande maggioranza delle persone ha un conto corrente bancario o una carta di credito: insomma, si rivolge a una banca – o alle Poste – per gestire il proprio denaro. A meno che, ovviamente, quei soldi non provengano da attività illecite. E non ci riferiamo solo a quelle più “clamorose”, come il traffico di stupefacenti o la vendita di beni rubati, ma anche, ad esempio, al lavoro nero. Abbassare la soglia di utilizzo dei contanti, allora, era da intendere come contrasto pratico, ma soprattutto culturale alla criminalità, e come “insegnamento” dell’abitudine a sostituire i contanti con metodi elettronici di pagamento. Ecco, alzare il limite – e non ha importanza se di 100 o di 10.000 euro – significa interrompere questo processo culturale e dare un colpo di spugna al lavoro fatto finora per rendere più trasparente le transazioni, favorendo il riciclaggio di denaro “sporco” e le attività illecite.

Il condono

Infine, ultima nota dolente, è la «tregua fiscale» inserita in legge di bilancio, per tutte le cartelle delle Agenzia delle Entrate sotto i 1.000 euro e fino al 2015. «Non è un condono», continua a ribadire Giorgia Meloni, bensì «operazioni di buon senso». Siamo sicuri?

No, non lo siamo. Quello varato dal governo è a tutti gli effetti un condono. Per quanto l’entità complessiva non sia eccessiva – secondo Il Fatto Quotidiano si tratterebbe di 350 milioni di euro, a fronte degli oltre 100 miliardi di euro all’anno calcolati di evasione fiscale in Italia –, cancellare tutte le cartelle dei debitori al di sotto dei 1.000 euro senza che venga versato un solo centesimo e senza alcuna conseguenza è un condono, non una pace fiscale; è un regalo agli evasori, non una tregua.

E non è nemmeno un’operazione di buon senso. Di buon senso, invece, sarebbe premiare chi non si è sottratto agli obblighi nei confronti della comunità, nonostante tutte le difficoltà economiche. Di buon senso sarebbe punire chi, al contrario, usufruisce dei servizi pubblici finanziati dalla collettività senza però condividerne il peso economico. Di buon senso sarebbe dare una volta per tutte un segnale forte al Paese: ad esempio, che l’evasione non è tollerata. Così, sì, si rinsalderebbe la fiducia dei cittadini nello Stato, che dimostrerebbe finalmente di essere giusto. Perché il condono è una misura iniqua, e uno Stato che lo adotta è uno Stato iniquo.

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