Durante gli anni ’80, Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, e Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito, trasformarono la teoria economica liberale in qualcosa di nuovo: il neoliberismo. Se la politica liberal proponeva che lo Stato fosse un soggetto attivo nell’economia, impegnandosi a favorire l’assistenza pubblica del welfare state, il neoliberismo propose un ritorno a un rigido individualismo. Tutto questo si tradusse in un taglio alla pressione fiscale per le grandi imprese e le classi sociali più alte; un progressivo ritiro dello Stato dal mercato – tranne che per gli investimenti sugli armamenti –; una corsa alle liberalizzazioni unita a un taglio drastico alla spesa pubblica per garantire il ritorno al mito del pareggio di bilancio.
La globalizzazione neoliberista
La globalizzazione è un fenomeno estremamente complesso, che può essere spiegato attraverso più elementi. Il primo è quello che concepisce la globalizzazione come una nuova cultura mondiale nata dai modelli americani. Questo fenomeno è stato anche descritto come un flusso globale di immagini, data la rapidità che le comunicazioni hanno acquistato grazie a Internet.
Secondo aspetto è pensare alla globalizzazione come un flusso globale di capitali finanziari. Il capitalismo neoliberista, a differenza di quello industriale-produttivo che si è sviluppato con maggior intensità negli anni ’50 e ’70 in Occidente, ha creato nell’economia un predominio del lavoro terziario di alto livello. Dagli anni ’80 la società occidentale è diventata sempre più post-industriale, in quanto il peso della grande industria ha perso progressivamente rilievo nell’economia dei Paesi avanzati. Tale tendenza è stata anche alimentata dalla delocalizzazione delle industrie, ovvero lo spostamento della catena produttiva in paesi del Terzo Mondo che, per le multinazionali, rappresentano luoghi in cui è più vantaggioso produrre essendo minori i salari, i diritti sul lavoro, i costi del lavoro e la tassazione. In altre parole, la globalizzazione, avendo creato un mercato del lavoro globale, ha posto fine alle conquiste dei diritti sociali che gli Stati nazionali occidentali avevano acquisito nel corso degli ultimi due secoli.
Terzo aspetto è pensare alla globalizzazione come un flusso globale di persone. L’aumento delle diseguaglianze, sia nei paesi occidentali sia in quelli in via di sviluppo, unita a un aumento democratico globale ha causato, dagli anni ’80 in poi, un aumento dei flussi migratori dai paesi del Terzo Mondo ai paesi più economicamente più avanzati.
In questo quadro globale emerge la difficoltà degli Stati nazionali di far fronte alle nuove sfide globali; sfide che, forse, possono essere affrontate, e non è detto vinte, solamente da Stati Uniti, Cina e Russia. In ogni mondo, la realtà multiconnessa a velocità di impulsi elettrici ha creato un mondo strettamente interconnesso, nel quale le politiche di singoli paesi, dove i programmi di partito delle elezioni hanno nessuna concreta applicazione nella realtà dei loro governi, hanno ben poca incidenza sulla politica internazionale e sull’economia globale.
La globalizzazione in Italia
Anche la Repubblica Italiana fu investita dagli effetti della globalizzazione. La crisi petrolifera del 1973 fu il primo evento che diede una forte battuta d’arresto alla crescita industriale della Penisola e fu affrontata dai governi di allora con l’aumento della spesa pubblica sul fronte sociale; provvedimento che diede inizio all’espansione del debito pubblico italiano. Ciò nonostante, dal 1975 al 1985 il tasso di disoccupazione italiano salì dal 6% al 10%. Dagli anni ’90 in poi furono applicante anche nel “Bel Paese” le politiche neoliberiste che, avendo l’obbiettivo di tagliare il deficit pubblico, privatizzarono, riformarono o tagliarono i fondi delle politiche pubbliche sociali. Celebre è la riforma Amato del 1992, che modificò radicalmente il sistema pensionistico italiano.
Dagli anni ’80 in poi la delocalizzazione si fece sentire anche in Italia e la maggior parte della grande industria pesante, che era stata il cuore del boom economico degli anni ’50-’60, o andò a produrre fuori dai confini nazionali, o fallì. Ricordiamo il fallimento di Olivetti o la trasformazione della più importante industria automobilistica italiana, la Fiat, che si è trasformata prima in Fca e ora in Stellantis, diventando, con le sue acquisizioni, una delle principali multinazionali del settore. In questo stesso periodo venne a formarsi in alcune regioni, soprattutto nella Pianura Padana, la “Terza Italia”, ovvero la formazione di piccole e medie imprese specializzate nel settore dell’industria leggera. Questa nuova realtà ebbe un grande sviluppo perché, essendo dotata di maggiore flessibilità ed essendo collocata geograficamente vicino ai grandi flussi commerciali dell’Europa continentale, si adattò meglio all’economia neoliberista. Riguardo alla rivoluzione del nuovo capitalismo, la città di Milano, grazie ai suoi servizi di alto livello nel campo bancario e finanziario, è diventata la prima città italiana del capitalismo finanziario; o meglio, la prima – e unica – città globale italiana.
Se dagli anni ’50 i flussi migratori andarono dal Sud al Nord dell’Italia, dalla metà degli anni ’70 il nostro Paese è diventato sempre più luogo di immigrazione: un fattore, questo, che ha trasformato la società italiana, dandole caratteristiche sempre più multiculturali e cosmopolite, ma che ha generato anche paure e timori in alcuni settori della società, dando vita a un ritorno prepotente di un razzismo mascherato dietro concetti quali “differenza culturale”, “identità culturale”, tradizioni, radici.