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L’Italia liberale

Il periodo liberale del Regno d’Italia va dall’Unità all’età giolittiana, dal 1871 al 1901: un periodo di profonde trasformazioni istituzionali, politiche, sociali, culturali ed economiche.

Nel 1861 la penisola era abitata da circa 26 milioni di abitanti. Il tasso di alfabetizzazione era piuttosto alto, il 78%, con punte del 90% nei territori ex-papali, nel Mezzogiorno ex-borbonico e nelle isole. Solo una minoranza della popolazione faceva uso corrente della lingua italiana, ma comunque anche questa parlava il dialetto nelle relazioni familiari e nei rapporti con il resto della gente – una caratteristica, questa, che è durata a lungo nel nostro Paese, ancora fino agli anni ’70.

L’Italia, come era stata sin dall’età romana e poi medievale, era uno dei paesi europei con il maggior numero di città, la maggior parte delle quali, tuttavia, era priva di grandi attività produttive; le poche industrie erano dislocate lontano dai grandi centri e non in modo uniforme sull’intero territorio peninsulare. La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali, poiché l’attività agricola occupava il 70% della popolazione attiva. Durante il XIX secolo, nella Pianura Padana, si svilupparono le prime aziende agricole capitalistiche che impegnavano in larga misura manodopera salariata; nell’Italia centrale forma prevalente era la mezzadria, mentre nel Mezzogiorno e nelle Isole dominavano i grandi latifondi, cioè grandi distese di terra, di proprietà di un’unica persona, coltivate per lo più a monoculture da contadini che non possedevano l’appezzamento che lavoravano; anzi, molto spesso avevano contratti di lavoro a condizioni fortemente svantaggiosi, quasi servili.

Il liberalismo della Destra Storica

Il gruppo dirigente della Destra Storica governò per un quindicennio, dal 1861 al 1876, attraverso politiche rispettose delle libertà costituzionali, accentratrici nei rapporti tra istituzioni e territorio, liberali in campo economico e laiche fra Stato e Chiesa. Il nucleo centrale era costituito dai piemontesi, cioè coloro che avevano già fatto carriera politica nel Regno di Sardegna tra le file parlamentari dei liberali di Cavour (La Marmora, Sella, Lanza), ma, dopo l’unificazione, si unirono i liberali delle altre regioni italiane: i lombardi Jacini e Visconti-Venosta, gli emiliani Farini e Minghetti, i toscani Ricasoli e Peruzzi. In realtà, più che un gruppo di destra, essi erano espressione di un centro moderato e si distinguevano dalla destra reazionaria, quella dei clerici e dei nobili assolutisti, che si era autoesclusa dalle istituzioni del nuovo Stato-nazionale in quanto non ne riconosceva la legittimità.

Le esigenze pratiche immediate dovute a governare il nuovo Regno spinsero la classe dirigente alla costruzione di un modello di Stato accentrato con ordinamenti uniformi e una rigida gerarchia dell’amministrazione dipendente dal centro. Tra i provvedimenti principali ricordiamo la legge Rattazzi, che stabilì l’ordinamento comunale e provinciale; la legge di unificazione amministrativa del 1865, promulgata dal governo La Marmora; la famigerata Legge Pica (1862), quella con cui ci si impegnò a sconfiggere il grande brigantaggio nelle province meridionali, considerato un pericolo per l’unità del paese, istituendo un vero e proprio regime di guerra

Particolarmente importante fu la Legge Casati, emanata nel 1861, che disciplinava l’istruzione: essa creò un sistema scolastico nazionale, fortemente elitario ma che garantiva l’istruzione elementare obbligatoria. L’istruzione elementare era articolata in due cicli, in cui il primo (inferiore biennale) era obbligatorio e gratuito. Vi era poi l’istruzione secondaria classica, che consentiva l’accesso all’università, cioè quel percorso di studi che avrebbe formato la nuova classe dirigente. Differente e parallelo era poi il percorso d’istruzione secondaria tecnica, in cui era prevista la sezione fisico-matematica che consentiva l’iscrizione alle facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali.

In campo economico, unificato il Paese si eliminarono le tariffe doganali interne, che non aveva più senso che esistessero, e si adottò la tariffa doganale sarda del 1859 per le esportazioni all’estero. Da ciò, e dalla politica di incremento e miglioramento della rete ferroviaria che fu adottata, derivò un aumento degli scambi e della produzione agricola, specialmente quella delle colture specializzate nel Mezzogiorno, ma mancò uno sviluppo industriale dei settori più avanzati e più importanti. Gli enormi costi dell’unificazione, tuttavia, comportarono una dura politica fiscale: si reintrodusse la tassa sul macinato e aumentò la tassazione indiretta, ma l’obiettivo del pareggio di bilancio fu raggiunto infine nel 1875, un anno prima della “rivoluzione parlamentare”.

Il liberalismo della Sinistra Storica

Con la famosa “rivoluzione parlamentare”, nel 1876 la Sinistra Storica riuscì a scalzare gli avversari politici dal governo e relegarli all’opposizione. La Sinistra storia era classe dirigente della sinistra democratica, e tra le sue fila vi era la vecchia sinistra piemontese (Depretis, Valerio, Broferio) e i patrioti ex-mazziniani o garibaldini (Crispi, Bertani, Cairoli), approdati ora a posizioni legalitarie e non rivoluzionarie. Il gruppo sociale di riferimento era eterogeneo e andava dai gruppi piccolo e medio-borghesi delle città ai gruppi di operai e artigiani del Nord che, al tempo dell’unificazione, erano esclusi dall’elettorato attivo. La politica si basava sulle rivendicazioni della corrente democratica risorgimentale: il suffragio universale e il decentramento amministrativo.

Nel 1882 il suffragio fu ampliato a tutti i cittadini maschi che avessero compito il ventunesimo anno e che dimostrassero di sapere leggere e scrivere avendo superato l’esame finale del corso elementare obbligatorio – può sembrare molto, ma in realtà interessò il 7% della popolazione della penisola. La politica economica si caratterizzò per l’intervento dello Stato nel mercato attraverso forti sgravi fiscali per i ceti popolari e per quelli borghesi, l’introduzione di dazi doganali per difendere la produzione del Paese dal mercato estero, investimenti mirati per il decollo industriale – ad esempio, la fondazione delle acciaierie di Terni. Ciò non diede i risultati sperati: nel 1896 l’Italia si trovava in una pesante crisi agraria e in una condizione di mancato sviluppo industriale, generando un forte malcontento sociale che al Nord e nella Pianura Padana prese forma nel movimento operaio organizzato, e al Sud e nel Veneto si tradusse in emigrazione verso nuovi paesi.

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