Lago di Como, 27 aprile 1945.
Una colonna composta da auto, blindati e camion è bloccata da un posto di blocco sulla strada che porta a Dongo, piccolo comune sul Lago di Como. All’interno dei veicoli ci sono militari tedeschi e gerarchi fascisti in fuga, probabilmente verso la Svizzera, dopo che l’Italia del Nord è stata liberata, il 25 aprile. A fermare il convoglio sono stati i partigiani della 52° Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, allertati dalla notizia che Mussolini era fuggito da Milano. Si avviano lunghe trattative con i tedeschi, e alla fine i partigiani accettano di lasciarli andare, ma solo dopo aver ispezionato i mezzi. Nel camion 34, guidato da Nicola Bombacci, gerarca fascista, c’è un ufficiale tedesco rintanato sotto una coperta, probabilmente è malato o solo sta dormendo. Il partigiano incaricato dell’ispezione, però, lo riconosce: sotto l’elmetto calato fino alla bocca si nasconde Benito Mussolini.
L’arresto
La ricostruzione più attendibile individua in Giuseppe Negri il partigiano che riconobbe Mussolini e in Urbano Lazzaro colui che arrestò il duce «in nome del popolo italiano» e lo portò in municipio, dove gli requisì la famosa borsa su cui tanto revisionismo e complottismo ha fantasticato (mi riferisco all’“oro di Dongo” e al fantomatico carteggio con Churchill; storia, questa, che attribuisce l’omicidio di Mussolini non ai partigiani, ma a degli agenti segreti inglesi, che avrebbero dovuto recuperare proprio questo carteggio). Assieme a Mussolini, furono arrestate una cinquantina di persone tra gerarchi e familiari al seguito, compresa l’amante di Mussolini, Claretta Petacci. I due furono separati dal resto dei prigionieri e condotti in un cascinale a Bonzanigo, a una ventina di chilometri da Dongo, dove passarono la notte.
La notizia arrivò in fretta a Milano, ai vertici del CLNAI. Sandro Pertini, quello stesso 27 aprile, annunciava per radio l’arresto di Mussolini: «Lavoratori, il fascismo è caduto. I componenti di questa associazione per delinquere, sino a ieri feroci perché si appoggiavano alla brutale forza nazista, questa forza crollata, sono fuggiti appena l’insurrezione popolare è esplosa. Il capo di questa associazione a delinquere, Mussolini, mentre giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera, è stato arrestato. […] E per tutte le vittime del fascismo e per il popolo italiano dal fascismo gettato in tanta rovina, egli dovrà e sarà giustiziato». Il giorno successivo, il 28 aprile, Walter Audisio, nome di battaglia “Valerio”, viene inviato a Dongo assieme ad Aldo Lampredi “Guido” per eseguire la condanna a morte che il CLNAI aveva già emesso il 25 aprile.
La morte
Le circostanze della morte di Mussolini sono l’argomento su cui più si è scatenata la fantasia dei revisionisti, le cui “teorie” hanno cercato di instillare dubbi tanto sullo svolgimento dell’esecuzione, quanto sull’identità degli esecutori.
In realtà, i dubbi sulla vicenda sono pochi, e riguardano per lo più quale dei partigiani lì presenti uccise effettivamente Mussolini. La versione ufficiale, infatti, attribuisce il merito di aver portato a termine l’operazione al colonnello “Valerio”, l’unico che era stato autorizzato a farlo. Nel pomeriggio del 28 aprile Audisio, assieme a Lampredi e Moretti, alias “Pietro Gatti”, partigiano della 52° Brigata Garibaldi, prelevò Mussolini e la Petacci e li condusse sul luogo designato per l’esecuzione, via XXIV Maggio a Giulino di Mezzegra. Audisio, dopo aver pronunciato la sentenza, sparò sul duce una raffica di mitra, uccidendolo; morì anche la Petacci, che si pose tra i colpi e il corpo dell’amato. Contemporaneamente, a Dongo venivano giustiziati altri 15 gerarchi fascisti.
Lo storico comasco Giorgio Cavalleri introduce una piccola modifica alla versione ufficiale. In un’intervista rilasciata per Rainews24, ha infatti dichiarato di essere convinto che a essere presenti sul luogo fossero effettivamente Audisio, Lampredi e Moretti, ma che a sparare fu quest’ultimo: «a Como, soprattutto al termine della guerra, per alcune settimane, lo dicevano chiaramente i partigiani che conoscevano il tutto. È stato dopo, nel 1947, quando è arrivata la versione ufficiale, bisognava dire che era stato solo Audisio. Probabilmente va visto nella logica di allora, perché Moretti era un povero operaio, e quindi non poteva avere sparato a una persona che era stata tanto importante». La comunità scientifica, comunque, non ha dubbi nell’attribuire l’uccisione di Mussolini ai partigiani, come d’altronde rivendicò lo stesso CLNAI il 29 aprile: «Il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia dichiara che la fucilazione di Mussolini e dei suoi complici da esso ordinata è la conclusione di una fase storica e di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ricostruzione».
Non ci addentreremo qui nella “selva oscura” delle teorie revisioniste che sono state formulate nel corso degli anni. Ci limiteremo a porre la questione – senza pretendere di dare una risposta definitiva – della legittimità della condanna del CLNAI. Andiamo con ordine. Il 29 settembre 1943, a integrazione dell’armistizio del 3 settembre, tra le forze alleate e il governo italiano legittimo veniva firmato a Malta l’“armistizio lungo”, il cui art. 29 recitava: «Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino negli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite». Successivamente, nel dicembre 1944, il CLNAI firmò i Protocolli di Roma con gli Alleati e con il governo italiano, con i quali veniva riconosciuto come «Delegato del Governo Italiano» nei territori occupati e «successore del governo che firmò le condizioni di armistizio», nonché «la sola autorità legittima in quella parte d’Italia che è già stata o sarà in seguito restituita al Governo italiano dal Governo militare alleato». Nell’aprile 1945, dunque, il CLNAI è ufficialmente investito di autorità di governo per la parte del Paese ancora occupata, ma deve anche sottostare alle condizioni dell’armistizio firmate da Badoglio nel settembre 1943; dunque, se lo avesse catturato, avrebbe dovuto consegnare Mussolini agli alleati. Il nodo problematico della questione si apre il 25 aprile, quando il CLNAI, assumendosi tutti i poteri e dichiarando lo stato d’eccezione, proclamò l’insurrezione generale e, contestualmente, la condanna a morte di tutti «i membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di aver soppresso le garanzie costituzionali e di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del Paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe». Bisogna dunque chiedersi: questa presa di posizione è legittima o no? O meglio: viste le premesse, il CLNAI aveva l’autorità per avocare a sé tutti i poteri e violare l’armistizio? D’altro canto, in quest’ultimo si precisava che Mussolini e i gerarchi avrebbero dovuto essere consegnati se si fossero trovati in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, mentre formalmente il 25 aprile il Nord Italia era ancora territorio occupato dai tedeschi, i quali firmeranno la resa definitiva solo il 29 aprile a Caserta.
Legittimo o no, era impensabile che, dopo tutto ciò che Mussolini aveva incarnato e che il fascismo aveva causato in vent’anni – guerra, esili, morti, sofferenza, clandestinità, persecuzioni –, chi lo avesse catturato avrebbe accettato di vedere una fine diversa. Lo dimostrano i fatti di piazzale Loreto.
Piazzale Loreto
La mattina del 29 aprile Audisio raggiungeva piazzale Loreto su un camion. Una scelta non casuale, anzi: come ha messo in evidenza Sergio Luzzatto in un libricino scritto qualche anno fa (25 aprile 1945. La Liberazione, Laterza 2010), il traliccio sul quale vennero appesi i corpi del duce, della Petacci e di altri tre gerarchi fascisti, era già stato issato il 27 aprile. Una scelta consapevole, ovvia, quasi “naturale”, perché si trattava di riappropriarsi di un luogo della memoria antifascista: il 10 agosto del 1944, infatti, 15 prigionieri politici di San Vittore erano stati condotti in piazzale Loreto e fucilati come ritorsione per un attentato dinamitardo avvenuto due giorni prima, l’8 agosto, a un camion tedesco, in viale Abruzzi – peraltro, nessuno dei tedeschi perse la vita, a differenza di sei civili che si trovavano lì per caso. I malcapitati non solo furono giustiziati in pubblico, ma i loro corpi furono lasciati per tutto il giorno sul selciato della piazza, con un cartello che li definiva “assassini”, presidiati dai fascisti e profanati in ogni modo possibile, esposti al pubblico come monito per l’intera città. Ecco, quel 29 aprile 1945 toccò la stessa sorte al corpo di Mussolini e della Petacci, lasciati in piazza e, infine, appesi a quel traliccio a testa in giù. Vale la pena chiudere questo contributo con un passo del volume sopra citato che bene mostra alcuni dei tantissimi significati che quel “rituale” ha avuto:
«Vedere Mussolini? Non solo: colpirlo, accanirsi sul suo corpo morto, in un carnevalesco rovesciamento delle forme di venerazione che avevano informato il rapporto degli italiani con il corpo del duce vivo. […] “Duro a morire”, il duce? Una donna spara sulla salma, la crivella di colpi; donne e uomini la prendono a calci, riducendo la “blindatura cranica” di Mussolini a una massa informe di ossa rotte […]. Munifico il duce, capace di affrancare l’Italia da un destino secolare di fame e di miseria? Le donne di Milano gli gettano addosso ortaggi e pane nero, menù fisso dei cinque anni di guerra».
Vendetta per il 10 agosto 1944, sì; ma anche esibizione della morte del tiranno, desiderio di demitizzare l’idolo, di calpestare un corpo che era stato amato, esibito, usato, anche nel tentativo di autoassolversi dalla colpa di averlo idolatrato.