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La fine dello Stato liberale

L’Italia, dopo il provvedimento di Giovanni Giolitti del 1911, poteva contare su corpo elettorale allargato a oltre otto milioni e mezzo di persone. Fu proprio questo provvedimento che diede avvio alla crisi degli equilibri politici del partito liberale che dall’Unità aveva governato il Paese e favorì la nascita (nel primo caso) e il consolidamento (nel secondo) di due attori politici che aumentarono sempre di più la distanza della classe dirigente liberale dalla società.

Nel 1919, un prete siciliano, don Luigi Sturzo, fondò il Partito Popolare Italiano (Ppi), un partito politico di massa che si proponeva di raccogliere un elettorato cattolico liberato dal non expedit (la famosa astensione dei cattolici dalla vita dello Stato unitario decretata da Pio IX all’indomani dell’Unità). Il Ppi si presentava con un programma democratico ispirato alla dottrina cattolica ed era legato a doppio filo con la Chiesa, in quanto la sua nascita era stata voluta dal papa e dalle gerarchie ecclesiastiche in risposta alla crescente minaccia socialista.

Alle fine del 1920 il Partito Socialista (Psi) arrivò a 200.000 iscritti. Alla guida di questo partito si affermarono i massimalisti, che si dichiaravano seguaci della rivoluzione bolscevica; tuttavia, la sua classe dirigente, più che guidare le masse attivamente alla conquista dello Stato, vedeva nella mobilitazione della società le premesse di una imminente rivoluzione.

La crisi del sistema liberale

Alle elezioni del novembre 1919 per la prima volta si usò il metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio lista che prevedeva un confronto fra liste di partito e non tra singoli candidati, come nella tradizionale politica liberale. L’esito del sistema proporzionale fu una frammentazione degli eletti che non favorì la creazione di una maggioranza omogenea: il primo partito fu il Psi che ottenne il 156 seggi, mentre il secondo fu il Ppi che ne ottenne 100. Dal momento che i socialisti si rifiutarono di collaborare con i borghesi, l’unica maggioranza possibile fu tra i cattolici e i liberali.

Dopo una breve parentesi, in cui si formò un governo guidato da Francesco Saverio Nitti, nel giugno 1920 fu chiamato al governo nuovamente l’ottantenne Giolitti, che presentò un programma politico fortemente progressista; tuttavia, la perdita di potere del partito liberale e il grande peso dei socialisti e dei cattolici non ne permisero una piena realizzazione.

L’emergere progressivo del fascismo agrario fu guardato, e non favorito direttamente, da Giolitti come strumento per ridurre e piegare le pretese sia dei socialisti sia dei cattolici. Alle elezioni del maggio 1921, avendo il fine ultimo di costituzionalizzare il fascismo e di farlo assorbire nella maggioranza liberale, i candidati fascisti furono inseriti in liste di coalizione tra conservatori, liberali e democratici. Nuovamente, grazie al sistema proporzionale, non si creò una maggioranza coesa e 35 deputati fascisti, guidati da Mussolini, entrarono in Parlamento.

A Giolitti succedette l’ex socialista Ivanoe Bonomi, il cui impegno principale, nell’agosto del ’21, tentare (invano) di porre fine allo scontro tra fascisti e socialisti attraverso la firma di un patto di pacificazione tra le due parti, che però venne disatteso. Appena un anno dopo, il 28 ottobre 1922, Mussolini organizzava la marcia su Roma e veniva investito della responsabilità di formare un governo: iniziava così il regime fascista.

Liberali e fascismo

All’indomani della marcia su Roma, Mussolini cercò una maggioranza in Parlamento dando vita a un governo di coalizione che proponeva, a capo dei ministeri, persone esterne al mondo dei partiti, cioè provenienti dalla società civile. Tale governo, smarcandosi dalla tradizione liberale, propose una politica economica corporativista che prevedeva, sul modello delle corporazioni medievali, una collaborazione tra il capitale e il lavoro per il bene del paese.

Per garantire ulteriore stabilità di governo il 21 luglio 1923 venne approvata la legge Acerbo, che modificava il sistema proporzionale introducendo un largo premio di maggioranza alla coalizione o al partito che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei consensi – almeno il 25% dei voti. Alle elezioni anticipate del 6 aprile 1924 la Lista di Alleanza Nazionale, che comprendeva fascisti, liberali, nazionalisti, ex-combattenti, cattolici, monarchici ottenne il 65% dei voti.

I mesi che seguirono il delitto Matteotti furono di grande crisi e incertezza e rischiarono di far cadere il governo di Mussolini. L’opinione pubblica si stava allontanando da quella esperienza, soprattutto quegli esponenti liberali moderati, come Giolitti, Croce ed Einaudi, e conservatori che avevano tentato di strumentalizzare il fascismo per i loro fini. A seguito di questa crisi, nel biennio 1925-26 il fascismo stravolse lo Statuto Albertino, la carta con la quale nacque lo Stato liberale nel 1848, emanando le leggi fascistissime: il vecchio sistema parlamentare veniva trasformato, nella mente del suo ideatore definitivamente, nel nuovo regime fascista.

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