Il divario tra Nord e Sud

«Io non mi sono mai potuto persuadere che in un paese libero, che trae come il nostro la sua ricchezza e la sua vita economica principalmente dai prodotti del suolo, le moltitudini, e più di tutte quelle che sono date all’agricoltura […] che sono i produttori della pubblica fortuna, debbano così spesso trovarsi senza mezzo di sostentare la vita». Con queste parole Pasquale Villari, intellettuale e politico napoletano, iniziava la prefazione della raccolta di scritti a cui diede il titolo di Lettere meridionali, pubblicato nel 1878. È quindi chiaro a quale parte del «paese libero» si riferisse: il Mezzogiorno d’Italia.

La «questione meridionale»

Pasquale Villari è uno dei “padri” di quel filone di studi che si è interrogato, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, sulla cosiddetta «questione meridionale», ovvero il divario esistente tra due parti ben definite del Paese: il Nord, o più precisamente il Nord-Ovest, e il Sud, cioè i territori del decaduto Regno delle Due Sicilie – ma analoghe condizioni si trovavano nei territori papalini.

Un divario che colpiva tutti i settori della vita, pubblica e privata. L’agricoltura, il settore economico principale del Paese, vedeva ad esempio un Nord organizzato in aziende agricole moderne, gestite con criteri capitalistici e impieganti manodopera salariata, e un Sud in cui ancora dominavano il latifondo, contratti di lavoro angarici e forme di dipendenza personale: insomma, erano ancora molto vive le tracce dell’ordinamento feudale, abolito nel Mezzogiorno tra il 1806 (nel continente), il 1812 (in Sicilia) e il 1835 (in Sardegna), ma ancora, di fatto, operante. Le stesse distanze tra le due “parti” del Paese erano riscontrabili nel settore industriale, maggiormente sviluppato e favorito dalle politiche statali al Nord, dove venne costituendosi il “triangolo industriale” che tanto importante fu nel determinare il «miracolo economico» italiano; scarsamente sviluppato al Sud, fino agli anni del boom economico e all’intervento statale. Una distanza che è possibile quantificare: nel 1871, tra Nord e Sud, si registrava una differenza di reddito annuo pro-capite pari al 25%, ovviamente a svantaggio del Sud.

Questo gap aveva delle ripercussioni immediate sul tenore di vita. Non che al Nord fossero tutti ricchi – la pellagra ha decimato per decenni la popolazione contadina della Pianura Padana prima che se ne identificassero le cause e si intervenisse –, ma al Sud, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, più della metà della popolazione versava in condizioni di povertà. E pauroso era il divario nel tasso di alfabetizzazione: il 42% nel Centro-Nord, solo il 16,5% al Sud.

Al perdurare di queste condizioni concorrevano, come causa ma anche come effetto, diversi fattori: l’inadeguatezza delle classi sociali che avrebbero potuto dare una svolta alle sorti del Mezzogiorno, cioè la nobiltà e la borghesia, scarsamente propense a fare rischiosi investimenti nel settore industriale; la lontananza dai ricchi e stimolanti mercati mitteleuropei; la latitanza dello Stato, che lasciava spazio d’azione alla criminalità (organizzata e non) in ambito economico e al peso delle clientele e dei rapporti personali in quello politico.

Un divario di orientamento politico

Le abbiamo sintetizzate brevemente, ma erano fondamentalmente queste le grandi questioni che la nascente Italia repubblicana ereditò dal suo passato. A queste, però, se ne aggiungeva ora una, che si era generata nel corso della Seconda guerra mondiale e che ricalcava gli eventi bellici. I risultati del referendum del 2 giugno 1946 avevano infatti evidenziato una nuova, grandissima spaccatura nel Paese, di ordine politico: un Nord che aveva votato a larga maggioranza per la Repubblica (64,8% contro il 35,2%) e un Sud fedele alla monarchia e ai Savoia (64% nelle isole e 67,4% nel Mezzogiorno). E una seconda spaccatura si manifestò nelle contemporanee elezioni dell’Assemblea costituente: al Nord avevano avuto un forte sostegno i partiti di sinistra, mentre al Sud le preferenze si erano orientate verso l’Unione Democratica Nazionale e il Blocco Nazionale della Libertà – nonché, in Sicilia, per il Movimento Indipendentista Siciliano.

Una differenza che, come anticipato, derivava dalla spaccatura che la guerra aveva generato nel Paese: l’occupazione nazifascista al Nord, abbandonato dalla monarchia sabauda a una feroce guerra contro l’invasore tedesco e allo stesso tempo tra fascisti e antifascisti; la continuità istituzionale al Sud, dove la monarchia si era rifugiata e da dove continuò l’attività di governo, seppure sotto stretta tutela degli alleati. È chiaro che questa enorme distanza di esperienze ebbe delle ripercussioni sull’orientamento politico della popolazione, cioè di chi quei tragici eventi li aveva vissuti sulla propria pelle e aveva vissuto la fuga dei Savoia come un tradimento. Ma non è da sottovalutare anche il fatto che a guidare la liberazione del Nord siano state quelle forze politiche che proponevano istanze di innovazione e rinnovamento in campo sociale e politico – il famoso «vento del Nord».

Il Nord industriale e il Sud agricolo

Perduravano, invece, le ormai quasi secolari divergenze dal punto di vista economico, ma questa volta in quadro generale disastroso: i danni causati dai bombardamenti, i problemi legati alla riconversione post-bellica, la disoccupazione, l’inflazione galoppante, l’aumento dei prezzi; insomma, la guerra aveva trascinato l’Italia sull’orlo del baratro. Una condizione che ebbe immediate conseguenze sul piano dell’ordine sociale: al Nord c’era il problema della riluttanza dei partigiani a deporre le armi e tornare a una vita ordinaria; al Sud, dopo i difficili anni del regime, aveva rialzato la testa la mafia e si erano diffusi a macchia d’olio il contrabbando e il commercio clandestino dei generi razionati (la “borsa nera”); inoltre, seguendo le antiche aspirazioni alla proprietà della terra, contadini e braccianti ripresero a occupare i latifondi e le terre incolte. Il costo di queste lotte fu spropositato: 80 morti e complessivamente 10.000 anni di carcere per chi fu condannato dai tribunali.

Dal punto di vista strutturale, il 1958 fu l’anno della svolta: per la prima volta, nel Paese gli addetti all’industria superarono quelli del settore agricolo, trasformando l’Italia da Paese agricolo a Paese industriale. Tuttavia, persisteva l’enorme divario tra le due macroaree del Paese: le grandi industrie, infatti, erano concentrate al Nord – la Fiat a Torino, la Pirelli a Milano, l’Ansaldo a Genova –, dove ingenti erano stati gli interventi dello “Stato imprenditore” durante il fascismo che ne avevano favorito lo sviluppo; nel Sud, invece, lo Stato era intervenuto poco o niente ed era ancora prevalente l’attività nel settore primario, che oltretutto non conobbe alcuna forma di innovazione tecnica né di sviluppo in senso capitalistico, con diverse forme di organizzazione della proprietà – erano presenti ancora i latifondi – o investimenti che potessero generare progresso. In realtà, due interventi riformatori il governo li prese nel 1950: la riforma agraria, che però non riuscì a raggiungere gli obiettivi prefissati; la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, che ebbe indubbi benefici per l’economia meridionale e il tenore di vita della popolazione grazie all’ingente iniezione di denaro pubblico, ma che non riuscì a promuovere un autonomo processo di modernizzazione nel Sud né a colmare il gap con il Nord.

L’emigrazione interna

In questa condizione generale, la svolta del 1958 diede vita a uno dei fenomeni che ha caratterizzato gli anni del boom economico: l’emigrazione dal Meridione alle zone industriali dell’Italia settentrionale. Si tratta di quasi due milioni di persone – giovani principalmente – che, afflitte dall’endemica disoccupazione, si riversarono nei centri industriali del Nord, dove sembrava che ci fosse un bisogno quasi illimitato di manodopera, alla ricerca di lavoro e di migliori condizioni di vita.

E se è vero che ciò si avverò dal punto di vista economico – l’Italia del boom economico raggiunse, per la prima volta al di fuori delle guerre, la piena occupazione – non bisogna però dimenticare gli enormi costi in termini sociali dell’emigrazione: i problemi di inserimento, gli episodi di intolleranza e di razzismo, la segregazione spaziale nei quartieri operai (un esempio è il quartiere Mirafiori di Torino, nato attorno al grande polo industriale di corso Traiano), la crescita disordinata delle città (che videro raddoppiare o triplicare la propria popolazione) e delle sue periferie.

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Matteo Machet
Ho 31 anni e vivo a Torino, città in cui sono nato e cresciuto. Sono profondamente affascinato dal passato, tanto da prendere una laurea in storia - ambito in cui mi sto anche specializzando. Amo leggere, la cucina e la Sicilia, ma tra i miei vari interessi svetta il giornalismo: per questo scrivo articoli di storia, politica e attualità.

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