«La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave, e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni». [1]
A partire dagli anni ’80 del Novecento si è sviluppato, in ambito scientifico, un intenso dibattito riguardante le varie forme che la criminalità organizzata ha assunto nel Mezzogiorno italiano. Non è un caso che gli studi in ambito antropologico, sociologico, storiografico, e di tutte quelle discipline che fanno parte del più ampio panorama delle scienze sociali, siano andati strutturandosi proprio in questo periodo. Sono questi, infatti, gli anni immediatamente successivi all’inizio della guerra di mafia che contrappose la fazione dei Corleonesi, guidati da Salvatore ‘Totò’ Riina, ai clan che erano al vertice dell’organizzazione mafiosa. Ma, soprattutto, sono questi gli anni più duri dello scontro tra Corleonesi e istituzioni. Un’escalation di violenza capace di uccidere, in 15 anni (1979-1994) e nella sola Palermo, i maggiori esponenti della lotta alla mafia: Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia; Pio La Torre, segretario del PCI siciliano; il procuratore capo Gaetano Costa; quattro magistrati, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; il prefetto e generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa; il capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, e Ninni Cassarà; agenti di scorta, familiari, testimoni, giornalisti, civili. Se è vero, come sostiene Salvatore Lupo, che «la mafia […] rappresenta un problema sociale e un allarme sociale, un’emergenza davanti all’opinione pubblica» solo nel momento in cui avviene il delitto di sangue[2], questi furono anni di grande emergenza, determinata non solo dal numero di omicidi e dai bersagli ‘eccellenti’, ma anche dalla ‘spettacolarizzazione’ dei delitti: le esecuzioni per le strade e in luoghi pubblici con kalashnikov e fucili a pompa, le vendette trasversali sulle famiglie dei ‘pentiti’, le autobombe.
Da questi fatti di cronaca nera che hanno insanguinato l’Italia per quasi vent’anni, ha ricevuto un grande impulso soprattutto la storiografia che, eccetto un momento di intensa produzione a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, dal secondo dopoguerra fino a quel momento era rimasta sostanzialmente in silenzio. Quasi a dimostrare una nuova consapevolezza: per affrontare efficacemente un problema grave, che in quegli anni poteva apparire ‘invincibile’, bisognava risalire alle sue origini e comprenderne le cause e i meccanismi della genesi.
A tale scopo sembravano insufficienti sia i paradigmi interpretativi elaborati dagli storici in precedenza, ancora troppo ispirati dai dibattiti sulla ‘questione meridionale’ e troppo impregnati dell’ideologia socialista che relegava la mafia nella categoria di «residuo feudale»[3], sia le formulazioni che fino a quel momento schiere di antropologi e sociologi avevano fornito della realtà meridionale e della mafia, attratte da un Mezzogiorno che per troppo tempo era stato descritto come un «paradiso abitato da demoni»[4]. A lungo, infatti, hanno prevalso metodologie di ricerca tendenti più alla conferma di visioni consolidate che all’analisi dei dati empirici che quella realtà offriva: dalle ricerche dei vari Banfield, Hess, Blok, Arlacchi, Jane e Peter Schneider – al di là dei faziosi presupposti teorici a partire dai quali alcuni di questi autori hanno intrapreso il loro ‘viaggio’ nel Mezzogiorno italiano[5], ma anche di acquisizioni che sono state importanti a stimolare una riflessione storica costruttiva sulla società meridionale e sulla mafia[6] – emerge uno scarso dialogo con i risultati della storiografia e con le fonti storiche a disposizione a vantaggio di approcci più astratti e generalizzanti, tendenti a ‘forzare’ i dati empirici per inserirli in schemi interpretativi precostituiti[7].
Il mancato incontro tra discipline che si occupano dello stesso oggetto, la storiografia in una dimensione diacronica e le scienze sociali in una sincronica, è una carenza che proprio negli anni ’80 del secolo scorso viene percepita da entrambi i lati. Così, sia sociologi come Raimondo Catanzaro e Diego Gambetta[8], che storici come Salvatore Lupo, Rosario Mangiameli, Paolo Pezzino, Antonino Recupero – e sul versante della camorra napoletana Marcella Marmo e Isaia Sales – hanno partecipato, con esiti più che positivi, a colmare.
Da una parte la ‘forma’, dall’altra la ‘sostanza’. Da questo primo incontro fecondo tra scienze sociali e storiografia, che da allora è continuato ed anzi ha ampliato il proprio raggio di ricerca includendo le inchieste e i dibattiti parlamentari, le fonti giudiziarie ed economiche, e recentemente anche la letteratura, l’immagine del Mezzogiorno, della sua realtà sociale, economica e politica, ne è uscita in gran parte ripulita dagli stereotipi che le erano stati affibbiati a partire dai primi decenni dell’Ottocento, gli anni delle prime rivoluzioni ottocentesche, e culminati nella ‘nascita’ della «questione meridionale», nella quale la «questione mafiosa» ha un ruolo di primo piano[9].
Al bagaglio di conoscenze sull’organizzazione mafiosa, quindi, il famoso storico della mafia, Salvatore Lupo, si chiede «qual è il contributo che uno storico può dare?»[10] Una domanda che a primo impatto può apparire retorica o provocatoria, ma che in realtà richiede un’ulteriore profonda riflessione, in particolare su due punti.
Primo: l’esistenza di una ‘mafia vecchia’ onorifica, rurale, moderata nell’uso della violenza, e una ‘mafia nuova’, urbana, nata nel secondo dopoguerra, degenerata, cruenta, legata alle più lucrose occasioni dell’edilizia e del commercio degli stupefacenti[11]. Se prendessimo per buona questa dicotomia, studiare le origini delle organizzazioni mafiose, le particolari condizioni socio-economiche e politiche in cui sono nate e in cui si sono consolidate, sarebbe un’operazione anacronistica, poiché oggi saremmo di fronte a un fenomeno non solo qualitativamente, ma anche essenzialmente diverso. Tuttavia, è sintomatico il fatto che buona parte degli storici che si occupano di criminalità organizzata rifiuti tale dicotomia ed evidenzi, piuttosto, i caratteri di continuità tra età liberale ed età repubblicana e l’«efferata modernità»[12] che l’organizzazione presenta già nel periodo postunitario[13].
Lungi, dunque, dall’avere un valore puramente ‘antiquario’, riscostruire il contesto in cui la mafia è nata e ha mosso i suoi primi passi fornisce quel bagaglio di conoscenze necessarie alla comprensione di un fenomeno – è questo il secondo punto di riflessione – la cui nascita è stata collocata, di volta in volta, nelle pieghe della lunga storia di dominazione subita dalla Sicilia, «quest’isola mille volte invasa»[14], o nella natura stessa dei siciliani, in quanto essi, è stato scritto, «[…] sono quello che sono: sono, cioè, siciliani e costituiscono come tali una particolare razza con propri inconfondibili caratteri»[15]. Nel primo caso, il riferimento principale degli studiosi è alla dominazione spagnola, ma c’è anche chi ha cercato di ritrovare dei rapporti di tipo mafioso, consistenti nella «connivenza tra delinquenza e potere politico», nei primi decenni del Cinquecento, e prima ancora nella setta dei Beati Paoli e nella rivolta dei Vespri Siciliani[16]. Nel secondo caso, il riferimento forse più celebre è quello al demo-psicologo palermitano Giuseppe Pitrè, che descrive la mafia come «coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della propria forza individuale»[17].
Si può ora provare a dare una risposta a quella domanda iniziale: se la mafia viene collocata in una dimensione astorica, metafisica, mitica, in cui è difficile riconoscere confini e aspetti peculiari, discernere tra mito e realtà, individuare un luogo e un momento originari, il contributo che può dare uno storico è proprio quello di restituire concretezza, fornendo un contesto storico il più possibile coerente ed esauriente, a un fenomeno che è tutto «umano», e che come tale sottostà alle leggi dell’individuazione nello spazio e del tempo.
Perché «o la mafia diventa palese in un tempo e in un contesto storico ben determinati, oppure non è»[18].
[1] Intervista a Giovanni Falcone in Blu notte – La mattanza: dal silenzio sulla mafia al silenzio della mafia, puntata andata in onda su Rai Tre il 25/6/2003
[2] S. Lupo, L’evoluzione di Cosa Nostra: famiglia, territorio, mercati, alleanze, in «Questione giustizia», n. 3, 2002, pp. 499-506.
[3] Cfr. C. Verri, Un dibattito marxista: mafia e latifondo, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 63, 2008, pp. 135-56.
[4] A. Oriani, Le voci della fogna, in «Il Giorno», 8 gennaio 1900, citato da S. Lupo, Tra banca e politica: il delitto Notarbartolo, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 7-8, 1990.
[5] Cfr. S. Lupo, Storia e società nel Mezzogiorno in alcuni studi recenti, in «Italia contemporanea», fasc. 154, marzo 1984, pp. 71-93, in particolare pp. 74-76.
[6] Il riferimento è all’interpretazione dei mafiosi come brokers, pur con i suoi limiti, che si ritrova in Anton Blok (La mafia di un villaggio siciliano (1860-1960), Oxford 1974) e in Jane e Peter Schneider (Culture and Political Economy in Western Sicily, New York 1976). Tesi che verrà poi ripresa da Raimondo Catanzaro (Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Liviana, Padova 1988) e combinata con nozioni storiografiche, dando solidità a discorsi che altrimenti rischierebbero di rimanere astratti.
[7] Per un quadro sulla storiografia e i filoni interpretativi storiografici e socio-antropologici dal primo dopoguerra alla metà degli anni ‘80, sono fondamentali il contributo di R. Spampinato, Per una storia della mafia. Interpretazioni e questioni controverse, nel volume monografico di Einaudi, curato da M. Aymard e G. Giarrizzo, Storia d’Italia: le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia (Torino, 1987) e il pilastro dell’argomento, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri (Donzelli, Roma 2004, pp. 11-47) di Salvatore Lupo. Una critica delle opere sull’utilizzo delle fonti storiche è presente nel contributo citato di Lupo, Storia e società nel Mezzogiorno, pp. 81-86); per un’analisi critica delle opere degli Schneider e di Blok vedere sempre Storia e società nel Mezzogiorno di Lupo e l’articolo di P. Bevilacqua, La mafia e la Spagna, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 13, 1992, pp. 105-127 e in particolare pp. 110-113. Una critica di Hess e del suo utilizzo delle fonti storiche è nel contributo di Salvatore Lupo, «Il tenebroso sodalizio». Un rapporto sulla mafia palermitana di fine Ottocento, in «Studi Storici», n. 2, aprile-giugno 1988, pp. 463-489.
[8] R. Catanzaro, La mafia come fenomeno di ibridazione sociale. Proposta di un modello, in «Italia contemporanea», n. 156, settembre 1984, pp. 7-41; R. Catanzaro, Imprenditori della violenza e mediatori sociali. Un’ipotesi di interpretazione della mafia, in «Polis», I, 2, agosto 1987, pp. 261-282; D. Gambetta, Mafia: i costi della sfiducia, in «Polis», I, 2, agosto 1987.
[9] Sulla formazione del «concetto politico di Sicilia rivoluzionaria» ha scritto A. Recupero, La Sicilia all’opposizione (1848-74), nel volume monografico di Einaudi sulla Sicilia (pp. 41-85); sui motivi specificamente politici della nascita della «questione meridionale», sempre nello stesso volume di Einaudi è presente il bell’intervento di F. Renda, La «questione sociale» e i Fasci (1874-94) (pp. 159-88 e in particolare pp. 164-71); sui punti di contatto tra tradizione rivoluzionaria e organizzazioni mafiose e sull’identificazione opposizione politica/mafia, vedere il saggio di A. Recupero citato in precedenza e, dello stesso autore, Ceti medi e «homines novi». Alle origini della mafia, in «Polis», I, 2, agosto 1987, pp. 307-28. Inoltre, da leggere sono anche P. Pezzino, La tradizione rivoluzionaria siciliana e l’invenzione della mafia, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 7-8, 1990, e F. Benigno, La questione delle origini: mafia, camorra e storia d’Italia, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 87, 2016.
[10] Lupo, L’evoluzione di Cosa Nostra cit., p. 500.
[11] S. Lupo e R. Mangiameli, Mafia di ieri, mafia di oggi, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 7-8, 1990, pp. 17-44.
[12] Bevilacqua, La mafia e la Spagna cit., p. 117.
[13] Lupo, Storia della mafia cit.; Lupo, Mangiameli, Mafia di ieri cit.; M. Marmo, Passato/presente della camorra: dimensione sociale e dimensione politica, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 73/74, 2012, pp. 37-62; P. Pezzino, Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in La Sicilia cit., pp. 903-982.
[14] L. Sciascia, La Sicilia come metafora, Milano 1984, p. 43.
[15] V. Titone, Storia della mafia e costume in Sicilia, Milano 1964, cit. in Spampinato, Per una storia della mafia, p. 886.
[16] Cfr. Spampinato, Per una storia della mafia cit., p. 889; Lupo, Storia della mafia cit., pp. 50-51. Esiste addirittura una leggenda, riportata dallo storico Nicola Tranfaglia, secondo la quale mafia, camorra e ‘ndrangheta sarebbero state fondate, a cavallo tra XIV e XV secolo, da tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, giunti da Toledo nel 1412 e appartenenti alla consorteria della Garduna; i tre avrebbero poi deciso di dividere l’associazione in tre tronconi regionali (Campania, Calabria e Sicilia), dando loro i nomi attuali (N. Tranfaglia, La mafia come metodo. Il Mezzogiorno e la crisi del sistema politico italiano, in «Studi Storici», n. 3, luglio-settembre 1990, pp. 613-654, nota 8 p. 618).
[17] G. Pitrè, Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo 1889.
[18] Spampinato, Per una storia della mafia cit., p. 890.