L’attività produttiva principale della Conca d’oro dell’Ottocento era la ricca coltura agrumicola, in particolare quella del limone, che a partire dagli anni Quaranta aveva conosciuto una vertiginosa accelerata in seguito all’aumento della domanda sui mercati esteri[1]. Erano questi ultimi a dettare, in una prima fase, le regole del mercato: la produzione e la commercializzazione, infatti, erano gestite direttamente dalla metropoli capitalistica tramite mercanti inviati nelle zone di produzione, i quali costituivano attività di import-export specializzate non settorialmente, bensì per zone di partenza e di arrivo. E questa era una peculiarità del palermitano: Palermo, infatti, costituiva con New York un asse privilegiato, mentre la più ‘cosmopolita’ Messina riforniva, oltre agli Stati Uniti, anche Russia, Olanda, Austria[2].
Già presenti a Palermo nel Quattrocento, i giardini conobbero una prima fase di espansione ‘naturale’ sospinta dall’aumento demografico del capoluogo, e attorno agli anni ’50 del XIX secolo, sull’onda di un commercio estremamente ricco[3], si ritrovavano al di fuori della città, lungo la costa, coltivati intensivamente perché la Conca d’Oro si stava specializzando nell’agrumicultura: la richiesta era alta e la presenza del grande centro cittadino sulla costa, dotato delle infrastrutture necessarie all’immagazzinamento e alla conservazione degli agrumi e di un porto dal quale questi potevano salpare e raggiungere il consumatore oltreoceano, «preme[va] per la trasformazione del suo hinterland»[4].
Gli agrumeti avevano sede al di fuori di Palermo e attorno ad essi si andarono strutturando le borgate – a Messina prendevano il nome di villaggi[5] –, piccoli paesi che avevano la funzione principale di collegare i giardini con la città e di raccogliere la manodopera che d’inverno lavorava nelle campagne agrumarie, mentre d’estate si riversava in città alla ricerca di occupazioni. Questa catena, oltre a mediare i rapporti con il capoluogo, si rapportava anche con la Sicilia interna, in particolare con l’industria dell’estrazione dello zolfo, anch’essa nel pieno del suo sviluppo e della sua commercializzazione all’estero[6]; controllava i traffici – legali e non, come il contrabbando e l’abigeato – e tutelava gli interessi della città e dell’agrumicultura nei confronti dell’esterno, soprattutto li difendeva dagli assalti briganteschi.
Quello svolto delle borgate palermitane era un ruolo determinante perché assicuravano i rifornimenti di agrumi attraverso il variegato mondo degli intermediari: ed è proprio qui, dove erano presenti la risorsa primaria, i giardini, e ampie possibilità di profitto sulle attività di intermediazione tra questi e la città, che nacquero le organizzazioni mafiose.
Il fattore essenziale che spiega la forza e il radicamento della «mafia dei giardini» nella Conca d’oro è il ruolo economico-sociale che essa ricoprì all’interno dell’economia agrumicola con la sua attività di intermediazione.
I tre elementi che possono spiegare l’assunzione di tale ruolo sono strettamente collegati tra loro.
il primo sta nel fatto che la produzione restava ben distinta dalla commercializzazione del prodotto, e ciò implicava necessariamente il bisogno di un’intermediazione tra le due parti.
Il secondo – ed è questa la peculiarità della Conca d’oro che spiega il radicamento mafioso – era la prassi, da parte dei proprietari, di concedere i possedimenti in gabella: «la proprietà di tutto questo territorio è frazionata tra migliaia di possidenti, la maggior parte dei quali vive di rendita e di censi e perciò se ne sta in città a godersi la vita dando la loro proprietà in gabella, assicurandosi un reddito annuo, senza pigliarsi alcun grattacapo»[7]. Ma, assieme alla terra, essi cedevano tutto ciò che in quella società, svecchiata dalle leggi e dalle strutture feudali ma ancora impregnata di quei valori, il concetto di proprietà della terra portava con sé: ricchezza, onore e, soprattutto, potere.
Il terzo fattore si presentò con l’eversione della feudalità e con l’ingresso della Sicilia nei ranghi di uno Stato moderno che si proponeva «un ampliamento, sulla carta, dei compiti e delle sfere di intervento», su tutti il monopolio dell’uso legittimo della violenza, ma che nella prassi «fu incapace e poco desideroso di imporre l’ordine pubblico direttamente per mezzo dei propri organi polizieschi e giurisdizionali»[8].
Il commercio degli agrumi in tutta la Sicilia ottocentesca era una pratica essenzialmente speculativa in cui il proprietario (o il gabellotto) tendeva a restare sostanzialmente estraneo. L’agrume veniva generalmente acquistato dai commercianti quando era ancora sull’albero perché il ciclo della pianta è lungo, trentennale, e con il boom di esportazioni di metà secolo si generò una vera e propria ‘corsa all’acquisto’ dei prodotti. Il proprietario poteva scegliere se vendere solo una parte del raccolto (vendita a conto), riservandosi la possibilità di un lauto guadagno commercializzando direttamente il prodotto ma assumendosi tutti i rischi del caso (gelate, furti, cattivi raccolti), oppure tutto il raccolto (vendita a colpo), garantendosi così una rendita sicura e limitandosi a «coltivare da buon padre di famiglia»[9]. Il commerciante invece, acquistando a colpo, anticipava una forte somma di denaro cercando poi di speculare sulla rivendita del prodotto per massimizzare i profitti: una pratica questa molto rischiosa perché l’unico metodo razionale di previsione che egli possedeva era l’andamento della campagna agrumaria precedente, senza reali garanzie sulla domanda che proveniva dall’estero. Inoltre, egli si assumeva anche tutti i rischi della produzione e della custodia degli alberi, che oramai non erano più proprietà del produttore. Una prima figura tradizionale della lunga catena di intermediatori che accompagnava il tragitto della merce dai giardini fino al consumatore era quella del sensale: da un lato egli interveniva nelle contrattazioni tra il conduttore del giardino e il commerciante favorendo, ad esempio, la stipula di contratti informali, detti alberani[10], che lasciavano spazio a contrattazioni ulteriori nel caso la speculazione non andasse a buon fine; dall’altro lato, il sensale acquistava anche una funzione d’ordine perché assumeva su di sé la guardiania del giardino.
Il precario equilibrio di questo sistema commerciale subì una forte scossa negli anni ’70 dell’Ottocento: da un lato l’aumento crescente della domanda di agrumi cui la produzione non riusciva a rispondere adeguatamente e, dall’altro, la distruzione di molti giardini a causa della «malattia della gomma», creò una particolare congiuntura che costrinse gli speculanti ad anticipare ‘al buio’ somme di denaro sempre maggiori senza reali garanzie che la speculazione andasse a buon fine, e ad acquistare a colpo i frutti sempre più precocemente per battere la concorrenza. In questa particolare situazione, entrambe le parti avevano bisogno di fidarsi dell’intermediario, il quale acquistava un’importanza fondamentale: solo la sua opera di mediazione poteva far sperare al commerciante un rientro parziale del capitale se la speculazione falliva; solo la sua protezione del fondo, in presenza di contratti informali, garantiva la regolarità della transazione.
Tuttavia, non si capisce veramente come sia possibile il radicarsi del fenomeno mafioso attorno alle attività di intermediazione se si tiene conto solo della scissione tra produzione e commercio. D’altronde, in una società come quella siciliana, in cui il possesso della terra è fonte del potere economico, politico e sociale[11], i proprietari avevano a disposizione una quantità di risorse e di prestigio tale che sarebbe bastato loro «agire d’accordo per tre giorni per far sparire il brigantaggio»[12].
[1] M. Aymard, Economia e società: uno sguardo d’insieme, presente nel volume, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Storia d’Italia: le regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, Einaudi, Torino 1987, pp. 5-37.
[2] Contributo importante è quello di Salvatore Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza: la vicenda degli agrumi siciliani, presente nella rivista «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 1, 1987, pp. 81-112
[3] Sidney Sonnino, nel 1876, stima la rendita di un giardino della Conca d’oro intorno alle 2500 lire per ettaro, a fronte di una media siciliana di 40/41 lire (Sonnino, I contadini in Sicilia, in Franchetti e Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Vallecchi, Firenze 1974, vol. II, p. 70).
[4] Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza cit., p. 90.
[5] Sempre in Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza cit., p. 94.
[6] M. Aymard, Economia e società cit., pp. 11-15.
[7] A. Cutrera, La mafia e i mafiosi: origini e manifestazioni. Studio di sociologia criminale con una carta a colori su la densità della mafia in Sicilia, Reber, Palermo 1900, cit. in S. Lupo, Nei giardini della Conca d’oro, in «Italia contemporanea», n. 156, settembre 1984, p. 52.
[8] R. Catanzaro, Imprenditori della violenza e mediatori sociali. Un’ipotesi di interpretazione della mafia, in «Polis», I, 2, agosto 1987, p. 262 e p. 270.
[9] Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza, p. 105.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. Catanzaro, Imprenditori della violenza cit.
[12] L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in Franchetti e Sonnino, Inchiesta in Sicilia, vol. I, p. 31.