«Dichiaro senz’altro che il giorno 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la P.S. invece di giungere all’Albergo Dragoni alle 8.30 fosse giunta alle 12.30 io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re». Così Tito Zaniboni, militante del Partito socialista unitario, confessava durante il processo a suo carico per alto tradimento. Zaniboni era pronto per portare a segno il suo piano per uccidere Mussolini, il 3 novembre 1925, sfruttando i festeggiamenti per l’anniversario della vittoria della Grande guerra, ma le forze di polizia l’avevano intercettato prima che potesse compiere il fatto. Venutone a conoscenza, Mussolini si convinse che non poteva più temporeggiare: doveva dare un giro di vite in senso autoritario al Paese. Il fallito attentato alla sua vita fu la miccia che portò alla definitiva trasformazione dello Stato liberale in regime: già dalla fine di novembre, iniziarono a essere promulgate le «leggi fascistissime».
I preamboli
Tradizionalmente, la vera e propria nascita del regime si fa risalire a quella serie di provvedimenti giuridici che, emanati tra novembre 1925 e dicembre 1928, portarono a termine la “fascistizzazione” del Paese, stravolgendo lo Statuto albertino e mettendo fine alla libertà politica e statale. Tuttavia, già negli anni precedenti era stato preparato il terreno, forse inconsapevolmente, per questa trasformazione.
Nei primi due anni di Mussolini Primo ministro vennero fondate due istituzioni alle dirette dipendenze del capo del governo che furono poi centrali negli anni del regime: il Gran Consiglio del Fascismo (novembre 1922), l’organo direttivo del Pnf, istituzione non prevista dallo Statuto che fungeva da organo di raccordo tra partito e governo, e la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn), corpo armato del partito composto dalle camicie nere con l’obiettivo di «proteggere gli inesorabili sviluppo della rivoluzione» – altro non fu che dare veste istituzionale alle squadracce fasciste. Infine, si intervenne in ambito sindacale: il «Patto di Palazzo Vidoni» (2 ottobre 1925), firmato da Confindustria e dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, sanciva de facto la fine del libero sindacalismo e il monopolio dei sindacati fascisti nella «rappresentanza delle maestranze lavoratrici».
La creazione di un regime: le leggi eccezionali
La formazione del regime è scandita da fitte tappe e si completò in un tempo relativamente breve. Potremmo raccontare la storia delle leggi “fascistissime” in ordine cronologico: renderebbe bene il “ritmo” della fascistizzazione dello Stato italiano, ma rischieremmo di perdere di vista il quadro generale. Proveremo allora a raggruppare i provvedimenti repressivi per “aree tematiche”: questo ci permetterà, in parte, di mostrare anche la mentalità di Mussolini, cioè quali erano per lui gli spazi da occupare per modificare a suo vantaggio gli equilibri di potere e cosa ritenesse così pericoloso da dover reprimere sul nascere.
Una prima direttrice d’intervento fu il rafforzamento della figura del capo del governo e dell’esecutivo a discapito della Corona e la sostituzione del partito nell’amministrazione statale. Innanzitutto, a livello di potere centrale, venne giuridicamente definita la figura del Presidente del Consiglio come Capo del governo, diventando l’unico depositario della fiducia della Corona (Regio decreto-legge 24 dicembre 1925, n. 2263) e furono demandati al governo «l’organizzazione ed il funzionamento» della pubblica amministrazione e «l’ordinamento del personale a esse addetto» (Regio decreto-legge 31 gennaio 1926, n. 100). Ciò significava, per il partito, mettere persone fedeli nei luoghi nevralgici del potere – da allora, requisito necessario per lavorare nel settore pubblico fu il possesso della tessera di partito. È il caso dei prefetti, figura fondamentale nella costruzione e nel mantenimento del regime: nominati dal Ministero dell’Interno – dunque Mussolini stesso –, fu concentrato nelle loro mani il controllo capillare sul territorio dell’ordine pubblico, delle associazioni, dei partiti d’opposizione (finché sono esistiti), dei giornali. Le funzioni dei prefetti furono ulteriormente rafforzate con il Testo unico di pubblica sicurezza (Regio decreto 6 novembre 1926, n. 1848), dando loro grandi libertà per la tutela dell’ordine pubblico (tra cui l’invio al confino e la facoltà di sciogliere le associazioni ritenute pericolose). Altro strumento importante di controllo a livello locale fu l’istituzione di podestà di nomina governativa (Regio decreto-legge 4 febbraio 1926, n. 237) nei comuni con meno di 5.000 abitanti (estesa poi a tutti comuni con Regio decreto-legge 3 dicembre 1926, n. 1910), perciò di una persona gradita al governo: venivano, di conseguenza, sciolti i consigli comunali e destituiti i sindaci. Infine, fu costituzionalizzato il Gran Consiglio del Fascismo, che diventava «l’organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922». A esso venivano attribuite funzioni «deliberative nei casi stabiliti dalla legge» e la facoltà di esprimere pareri «su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del governo» (legge 9 dicembre 1928, n. 2693) – come esprimersi sulla successione al trono e preparare le liste elettorali.
Un secondo ambito d’intervento riguardò il mondo del lavoro. Preparata dal «patto di Palazzo Vidoni», la «legge Rocco» (Legge 3 aprile 1926, n. 563) aboliva il diritto di sciopero e cancellava la libertà sindacale riconoscendo al solo sindacato fascista il potere di firmare i contratti collettivi: anche se gli altri sindacati non furono formalmente sciolti, de facto sparivano perché cadeva la loro prerogativa principale – e infatti poco dopo tutte le sigle si sciolsero da sé.
Terza direttrice fu la fascistizzazione dei mezzi d’informazione. Mussolini, che era stato giornalista e conosceva l’importanza del controllo dell’opinione pubblica, in realtà già dal 1923 aveva iniziato un’azione di schedatura e controllo delle persone che ruotavano attorno ai giornali (giornalisti, direttori, finanziatori, editori) e aveva favorito l’ascesa di imprenditori favorevoli al partito nelle proprietà dei giornali. Ma fu fondamentale, nell’opera di allineamento dei giornali al regime, la legge 21 dicembre 1925, n. 2307. La legge non aveva un impianto repressivo; anzi, a primo sguardo sembrava accontentate un’antica richiesta dei giornalisti, perché istituiva l’Ordine dei giornalisti e l’albo professionale, facendo dunque nascere la professione del giornalista. La legge, però, stabiliva anche che «il direttore o il redattore responsabile», che doveva essere iscritto all’albo professionale, dovesse ottenere il «riconoscimento del procuratore generale presso la Corte d’Appello nella cui giurisdizione è stampato il giornale o la pubblicazione periodica» – se ricordiamo la legge sulla pubblica amministrazione si capisce subito dove sta il cortocircuito. Tra l’altro, istituire un albo significava anche stabilire i criteri d’ingresso in quell’albo, e dunque poter “scremare” i personaggi non graditi, chiudendogli le porte della professione e, in sostanza, tappandogli la bocca.
Ultima e fondamentale materia regolamentata fu la pubblica sicurezza. Dopo un secondo fallito attentato alla vita di Mussolini, il 31 ottobre 1926, da parte di un quindicenne, Anteo Zamboni, fu emanato il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Regio decreto 6 novembre 1926, n. 1848): un provvedimento ad ampio raggio (composto da ben 10 titoli e 233 articoli) che cancellava i pochi residui di vita democratica e di libertà nel Paese: introduceva il confino di polizia, scioglieva tutti i partiti d’opposizione e dichiarava decaduti dal loro mandato i deputati “aventiniani”, dava libertà ai prefetti di sciogliere le associazioni e sopprimere le pubblicazioni avverse al regime. Il provvedimento fu completato con la reintroduzione della pena di morte per chi attentava alla vita della famiglia reale e del capo del governo e la creazione dei Tribunali speciali per la difesa dello Stato (25 novembre 1926, n. 2008), che avrebbero dovuto giudicare su reati essenzialmente politici. Infine, nel 1927, venne creata l’Ovra, la polizia politica del regime.
Emanati tutti questi provvedimenti, c’era bisogno di una nuova tornata elettorale per legittimare definitivamente il dominio fascista. Per le nuove elezioni, fu preparata una nuova legge elettorale che introduceva il sistema della lista unica: agli elettori veniva presentata una lista di deputati, scelti dal Gran consiglio, che poteva essere solo approvata o respinta in blocco. Le elezioni si tennero il 24 marzo 1929, poco più di un mese dopo il grande successo dei Patti Lateranensi (11 febbario 1919): le liste fasciste ottennero il 98% delle preferenze. Il regime fascista si era definitivamente affermato.