Matteo Salvini è tornato a fare la voce grossa dopo mesi di più miti consigli sotto l’ombrello del governo di unità nazionale. Una scelta che, a detta del diretto interessato, gli è costata più della metà dei voti che aveva ottenuto nel marzo 2018 – e più dei tre quarti di quello storico 34,3% che aveva preso alle elezioni europee del 2019.
Eppure, in questo Salvini pecca di autocritica e fa di tutto per “rigirare la frittata”. Infatti, nonostante un risultato veramente catastrofico, non sono mancate esternazioni da vincitore e richieste di inusitata sproporzione agli alleati rispetto al peso reale della Lega nella coalizione. Non è un mistero, infatti, che il leader della Lega aspiri a tornare al Viminale dopo l’esperienza nel primo governo Conte, e nemmeno che richieda per il suo partito cariche di eccezionale importanza – il Viminale appunto, così come l’Economia o la Sanità, le Infrastrutture o l’Agricoltura, la Famiglia – e poter influire sulla scelta dei tecnici – pochi, lui spera – che verranno individuati da Giorgia Meloni. Asso piglia tutto, insomma.
Come si è già fatto per il Partito Democratico, proviamo a individuare i motivi della disfatta di un leader che ha preso la Lega al 4,09% (2013), l’ha portata al 17,4% nel 2018, al 34,3% nel 2019, e a governare la maggioranza delle Regioni, e poi l’ha persa in una calda sera estiva, in una discoteca del ravennate, con cuffie da dj nelle orecchie e un mojito in mano.
La perdita d’identità
Certo, Salvini non ha tutti i torti quando dice che l’esperienza nel governo di unità nazionale lo ha penalizzato in questa tornata elettorale. Tuttavia, slegata dal contesto, questa affermazione risulta fuorviante, oltre a trasmettere un messaggio, cioè quello di aver “sacrificato” i voti per il bene del Paese – cosa che, tra l’altro, dovrebbe essere la normalità, visto che per definizione i governanti devono fare il bene del Paese.
È un’affermazione fuorviante perché non è stata tanto la partecipazione all’ultimo esecutivo a far perdere consensi alla Lega, quanto la progressiva perdita dell’identità del partito. Un processo che è iniziato nel 2018, quando Salvini ha provato, riuscendoci, a trasformare la Lega Nord da partito “regionalista” a partito nazionale – cambiandogli anche il nome in Lega per Salvini Premier -, e che l’ingresso nel governo di unità nazionale ha solo amplificato.
Perché si può parlare di “perdita d’identità”? Li ricordiamo tutti i toni infuocati che assunse la campagna elettorale, con attacchi continui e reiterati agli avversari politici, e i contenuti proposti dalla Lega di Salvini: flat tax al 15%, eliminazione della legge Fornero con “quota 100”, abolizione all’uso del contante e, soprattutto, una politica durissima nei confronti dell’immigrazione.
Le promesse non mantenute
Ebbene, su ognuno di questi punti Salvini ha deluso profondamente il proprio elettorato, più che altro per i toni delle sue promesse.
La tanto decantata abolizione della legge Fornero, ad esempio, non si è attuata con “quota 100”, che è stata definita da «Il Sole 24 Ore» un «regalo per pochi», «iniqua e costosa» e «inefficiente», mentre il Fondo monetario internazionale ha scritto che «essa verosimilmente deprimerà sia la crescita potenziale, sia il tasso di partecipazione al mercato del lavoro»; inoltre, varata per promuovere il ricambio generazionale, non ha mai raggiunto tale obiettivo. La flat tax, poi, non è mai stata del tutto attuata.
Molte ombre hanno lasciato anche i Decreti Sicurezza, la misura che avrebbe dovuto reprimere l’immigrazione clandestina. La prima, e più grande, è l’assoluta crudeltà di questi decreti, che non solo puntavano ad abolire la protezione umanitaria ai migranti, ma soprattutto a impedire fisicamente il loro ingresso in Italia e la loro presenza sul territorio nazionale, oltre a smantellare la rete di soccorso in mare. Bisogna tuttavia pensare che chi ha votato Lega puntava proprio a questo; perciò, da quel punto di vista i decreti sono stati un successo. Salvo poi constatare che, fortunatamente, “chiudere i porti” non è possibile, né legalmente (e infatti i due Decreti Sicurezza sono stati dichiarati incostituzionali e Salvini è stato imputato in tre processi per aver negati a navi cariche di migranti di sbarcare nei porti italiani) né tantomeno nella pratica. La speranza è che parte del suo elettorato si sia reso conto degli effetti disumani delle misure prese, ma è più probabile che la delusione più grande sia stata proprio quella di non vedere un cambiamento netto, come promesso dal leader della Lega, dalla promulgazione dei Decreti Sicurezza.
Insomma, Salvini e la Lega, alla fine, hanno dovuto scontrarsi con la dura realtà, cosa che i politici non tengono più in conto quando iniziano la campagna elettorale.
Il governo “con tutti”
Non ha però tutti i torti Salvini a dire che la causa del crollo dei consensi è l’aver partecipato al governo con Draghi. Vero, ma solo in parte. Il problema più grosso, agli occhi dei suoi elettori, credo sia stato il modo di stare al governo con quasi tutti gli altri partiti dell’arco parlamentare. D’altronde, chi lo ha votato, lo ha fatto non solo per i contenuti delle sue proposte, ma anche per i suoi toni, per il suo carisma, per la semplicità dei suoi ragionamenti e la sicurezza con cui li ha esposti (anche quando questi stridevano un po’).
Atteggiamento, questo, che ha avuto il suo apice nell’agosto 2019, quando prima la Lega ha presentato la mozione di sfiducia nei confronti del Governo di cui faceva parte, il Conte I, salvo poi fare una clamorosa retromarcia pochi giorni dopo, che però non ha avuto successo.
Ecco, forse è questo il momento in cui qualcosa si è rotto con il suo elettorato. La marcia indietro sul primo governo Conte ha fatto sciogliere la statua di cera che Salvini aveva creato di sé stesso, come di un politico tutto d’un pezzo, forte, irremovibile, deciso, soverchiante.
E ancor di più agli elettori si è mostrato il vero volto della Lega e del suo leader quando ha deciso di abbandonare l’opposizione per tornare al governo per occupare di nuovo gli scranni del potere con qualche ministro (Massimo Garavaglia e Giancarlo Giorgetti). Un volto che si è fatto sempre più docile, remissivo, accondiscendente. Salvini, pian piano, è scomparso dalla scena pubblica, è decisamente diminuito l’hype che avvolgeva la sua figura.
Inoltre, Salvini si è fatto progressivamente “rubare” gli ambiti d’intervento dall’astro nascente della destra italiana, Fratelli d’Italia, su tutti la questione “sicurezza” e quelle più identitarie (di genere, natalità, famiglia tradizionale).
La parabola di Salvini, infine, ha dimostrato ancora una volta quanto facilmente gli italiani si innamorino e poi si stufino dei capi carismatici in politica: prima Renzi, ora Salvini. Sarà così anche per Giorgia Meloni?